Dalla passione per la salute del principale motore della vita, battito dopo battito, il dottor Antonio Mangieri, originario di Sant’Arsenio ha portato in alto il nome della Cardiologia Interventistica grazie ai numerosi studi, frutti di meticolose ricerche, eseguiti con dedizione e tenacia nel corso della sua carriera come medico cardiologo.
Il dottor Mangieri inizia la sua formazione scolastica proprio a Sant’Arsenio, paese in cui è cresciuto, per poi proseguire con gli studi classici al “Marco Tullio Cicerone” di Sala Consilina. Conseguito il diploma, Antonio decide di iscriversi all’Università e seguire le orme di suo padre, scegliendo la facoltà di Medicina dell’Università San Raffaele di Milano, dopodiché si specializza in Cardiologia e consegue un master in Cardiologia Interventistica con il professor Colombo.
Terminati gli studi, il dottor Mangieri ha lavorato un anno come consulente all’ospedale San Raffaele di Milano, dopodiché si è trasferito all’Istituto GVM Maria Cecilia Hospital di Ravenna ed infine, da alcuni anni, è impegnato all’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano, a Milano.
Recentissima è la notizia del primo impianto di protesi alla valvola mitralica senza chirurgia, eseguito all’Humanitas, di cui proprio il dottor Mangieri è il principale portavoce. La Cardiologia Interventistica, infatti, è una branca in continua evoluzione e che mette a disposizione della Medicina tecniche e strumentazioni del tutto innovative. Proprio l’intervento di impianto di protesi, come spiegato dal dottor Mangieri “ha permesso di superare tecnologie precedenti. I pazienti che si sottopongono di solito a questi interventi sono anziani, questa nuova tecnica, senza chirurgia, è più tollerabile e permette un recupero nettamente più veloce”.
Tra un successo e l’altro ci siamo messi in contatto con il dottor Antonio Mangieri, il quale ci ha gentilmente rilasciato un’intervista in cui vengono ripercorsi i punti salienti della sua carriera fino al legame con il paese che gli ha dato i natali.
- Dottore, come nasce la passione per la salute del cuore?
Mio mentore sin da bambino è stato mio padre. Lui è un cardiologo e di conseguenza mi ha trasmesso la passione per questa branca della Medicina da cui, del resto, sono sempre stato affascinato: il cuore è l’organo principale che comanda il corpo, il suo motore. Studiare Cardiologia dà la possibilità di specializzarsi in un campo ad ampio spettro in termini di cura, è quindi possibile attraverso numerosi farmaci, tecnologie e procedure cambiare la prognosi delle persone ammalate. Facendo il cardiologo si può dare una diagnosi ma si può anche dare una cura, oltre ad un’aspettativa di vita, ai pazienti che si rivolgono a noi in cerca del nostro aiuto.
- Ci sono oggi delle patologie cardiache che non hanno ancora trovato una cura?
Ci sono degli stadi della malattia cardiaca che sono ancora insufficientemente trattati. O meglio, ci sono delle opzioni terapeutiche ma la sopravvivenza dei pazienti è ancora non buona rispetto alla nostra idea generale di sopravvivenza; mi viene da pensare al cosiddetto “scompenso terminale”, per citarne uno. Ci sono anche delle condizioni congenite che agli ultimi stadi della patologia, a volte per una diagnosi ricevuta troppo tardi, purtroppo non riusciamo a trattare. Però se escludiamo queste cause o “nicchie di patologie”, tutte le altre condizioni cardiologiche (aritmie, coronarie, ecc.) hanno tante possibilità terapeutiche. Se dobbiamo prendere in considerazione una nota dolente mi verrebbe da dire che la Cardiologia ancora soffre per non saper prevenire una specifica causa d’infarto, che è la principale causa di morte nei Paesi occidentali. Siamo molto bravi in generale a dare dei consigli che si applicano bene alla popolazione però, fondamentalmente, non siamo ancora in grado di individuare quali saranno i pazienti che, purtroppo, svilupperanno un infarto. Su questo c’è ancora tanto da studiare.
- A proposito di studi, lei ha un curriculum davvero vasto nonostante la sua giovane età. Ci può parlare delle sue ricerche?
Mi sono sempre occupato di studi clinici che avessero una transizione diretta verso il paziente. Gli studi che ho seguito sono circa 220 ed hanno come temi fondamentali la cardiopatia e la Cardiologia Interventistica Strutturale. In sintesi mi sono sempre occupato dell’impatto che i nuovi sistemi tecnologici, dedicati al trattamento delle malattie, hanno sul paziente. Quindi una grossa fetta della mia ricerca si è sempre focalizzata, ad esempio, sul “Tavi” (Impianto valvolare aortico transcatetere) su pazienti anziani e questi studi sono stati mirati a capire e valutare l’efficacia ottenuta in particolari tipi di sottopopolazione. Mi sono poi anche concentrato su quello che è un filone di Ricerca riguardante sempre la Cardiologia Interventistica Strutturale applicata alla mitrale e alla tricuspide, che sono altre due valvole del cuore sulle quali siamo in grado di intervenire con dei sistemi che sono sempre più avanzati e che permettono di ottenere dei successi maggiori e duraturi nel tempo. Negli ultimi anni mi sono concentrato sulla Ricerca nel campo del trattamento della valvulopatia mitralica e tricuspidale.
- Queste sue importanti ricerche le hanno aperto delle porte all’estero?
Ci sono sempre stati dei “corteggiamenti” dall’estero, come dalla Germania ad esempio e perfino dagli Stati Uniti in passato, ma non ho mai accettato.
- Come mai?
Dal mio personale punto di vista l’Italia, fondamentalmente, se anche molte volte la dipingiamo come una “nazione secondaria” dà la possibilità di fare veramente tanto. Se ci si rimboccano le maniche, nonostante tutte le difficoltà che possano presentarsi, come in tutti gli altri Paesi, si ha la possibilità di fare qualcosa di buono. Il mio obiettivo sarebbe quello di rimanere in Italia e, per il futuro, naturalmente fare qualcosa di importante anche per dimostrare all’estero che noi italiani, come già noto, siamo degli ottimi lavoratori, interventisti e ricercatori e siamo persone in grado di fare scoperte che non hanno nulla da invidiare a quelle che vengono allestite in altre nazioni. In sostanza mi prefiggo di dare un contributo fondamentale allo sviluppo della Cardiologia Interventistica italiana per il prossimo futuro.
- Se dovesse scegliere, quale indicherebbe come punto più alto della sua carriera?
In realtà è difficile dirlo. Potrei dire che la mia carriera ha tanti aspetti. Proverò a sintetizzare in questo modo: dal punto di vista della Ricerca probabilmente la soddisfazione più grande l’ho avuta lo scorso anno quando ho partecipato ad un Congresso internazionale in America presentando ad una platea importante uno studio di cui sono stato primo autore, emozione che si è poi ripetuta quest’anno al Congresso europeo di Chirurgia Interventistica. Direi che è il frutto di tanto impegno dedicato ad una “vita parallela”, che è la Ricerca, e mi ha regalato sicuramente alcune delle soddisfazioni più grandi; dal punto di vista procedurale, invece, sicuramente il punto più alto l’ho toccato con l’impianto della nuova protesi sulla valvola mitralica. Abbiamo realizzato con l’équipe un lavoro davvero importante nel contesto sia nazionale che internazionale ed essere primo attore all’interno di un intervento di questo calibro è sicuramente motivo di orgoglio. Ma ciò non basta, bisogna sempre migliorarsi: il successo è “successo”, è già accaduto, per cui bisogna sempre essere proiettati al futuro e a ciò che di buono si può portare in esso, non bisogna fermarsi ed accontentarsi.
- In tal senso sta già lavorando a qualcosa per il futuro?
In questo campo si è in continua evoluzione, non bisogna restare indietro. Gli obiettivi per il futuro sono sempre tantissimi. Ci sono alcuni progetti a breve termine che riguardano il trattamento della valvola tricuspide con una nuova protesi ed altri che riguardano lo studio di un dispositivo per lo scompenso cardiaco avanzato. L’immediato futuro ci riserva tante novità a cui stiamo lavorando. Cerchiamo di fare del nostro meglio per aumentare le possibilità terapeutiche e le aspettative di vita.
- Cosa pensa della Sanità al Sud, manca ancora qualcosa?
La Sanità nel Mezzogiorno sta migliorando, è da precisare. Soffermandoci sulla Campania, che è la nostra regione, noto una maggiore offerta per i pazienti. Da non sottovalutare poi la diversificazione delle risorse, in Campania c’è stata anche un’apertura alla Sanità privata che, a parer mio, fa sempre bene per attivare una sana competizione con quella pubblica. Sicuramente se parliamo della Sanità al Sud non possiamo fingere che non manchi di una capillarizzazione dell’offerta sanitaria, nel senso che ci sono pochi ospedali e si riscontrano difficoltà nel creare poli di eccellenza. Con questo non voglio generalizzare, perché il discorso sarebbe davvero ampio ed andrebbero valutati molteplici aspetti e necessiterei di specifiche competenze, che non credo di avere, per indicare le direzioni da seguire, ma una cosa è certa: c’è da migliorare. Il turismo sanitario, ovvero lo spostamento dei pazienti, è un dato di fatto e non è più contemplabile nel 2023. I pazienti andrebbero curati nelle proprie zone di appartenenza, salvo alcune eccezioni come patologie rare che hanno bisogno di centri di eccellenza di riferimento nazionale. Per creare queste realtà bisognerebbe coordinarsi e trovare persone motivate a perseguire questo intento.
- Pensa mai di ritornare al Sud in qualità di medico?
Non mi dispiacerebbe. Io ho subìto molti cambiamenti all’inizio della mia carriera e per un medico è davvero difficile cambiare: ci si radica all’interno di un territorio e si crea tutto un connubio con i pazienti che è difficile da interrompere. Mi piacerebbe se in futuro si dovessero creare le giuste condizioni per poter tornare a casa. Per ora ho intrapreso un percorso qui, in un centro d’eccellenza, dove sono supportato nelle mie decisioni e strategie ed ho la fortuna di lavorare in un team invidiabile. Dunque per ora mi concentro a fare bene ciò che ho iniziato, per il futuro si vedrà.
- Che rapporto ha invece con il paese che le ha dato i natali?
Sant’Arsenio è casa ed io sarò sempre un cittadino del Vallo di Diano. Amo tantissimo la mia famiglia a cui sono legato da un affetto estremo ed ho un legame bellissimo con la gente del posto. Non mi sono mai staccato definitivamente dal Vallo ed anche durante la carriera universitaria tornavo a casa ogni volta che potevo: preferivo studiare sempre a casa mia piuttosto che a Milano. Sia per lavoro che per motivi familiari mi piace tornare e continuerò a farlo sempre: il Vallo è casa mia! Non si devono mai dimenticare le proprie radici, sono quelle a caratterizzarci.
- Cosa sente di dire ai giovani che vogliono seguire il suo esempio?
Innanzitutto i giovani volgendo uno sguardo al futuro non devono essere rassegnati ma positivi. La Cardiologia richiede impegno e lavoro. Dico ai giovani di trovare un mentore, una persona di riferimento che possa aiutarli e che creda in loro per poter lavorare serenamente. Va molto di moda in questo periodo post-Covid la “balance” tra vita privata e lavoro: giustissimo. Prendetevi il vostro tempo, il lavoro è importante ma sappiate godere anche degli scorci di vita che restano al di fuori. Prestate attenzione alla vita privata per far lavorare meglio la mente. Dal punto di vista lavorativo bisogna sempre cercare di dare il proprio massimo e non perdere mai tempo. Se anche in qualche periodo della nostra vita pare che le cose non vadano bene, mai buttarsi giù. Prefissatevi nuovi obiettivi, portateli a termine e vedrete che le soddisfazioni arriveranno sempre.