La violenza di genere è un problema complesso e per questo motivo deve essere affrontato coinvolgendo tutto il tessuto sociale. Una donna che richiede aiuto non può e non deve sentirsi sola ma deve avere a disposizione mezzi e figure professionali per aiutarla nel difficile percorso che sta per affrontare. Fortunatamente nel corso degli anni, grazie ad una maggiore consapevolezza dell’emergenza in corso, si è creata una vera e propria rete tra Istituzioni pubbliche e private, associazioni, centri antiviolenza, case di rifugio, operatori del settore e persone comuni che hanno come mission il contrasto alla violenza di genere.
Oltre alla possibilità di contattare le Forze dell’Ordine, è attivo a livello nazionale, 24 ore su 24, il numero di telefono gratuito 1522. L’accoglienza è disponibile in italiano, inglese, francese, spagnolo e arabo. Le operatrici ricevono le richieste di aiuto delle vittime di violenza e stalking e danno le prime informazioni utili indirizzandole verso i servizi socio-sanitari pubblici e privati più vicini. Sul sito www.1522.eu/è possibile anche chattare con un’operatrice che risponderà immediatamente alle richieste di aiuto o anche semplicemente a dei consigli. Il servizio è gestito dall’associazione Differenza Donna.
Nello specifico, sul territorio della provincia di Salerno sono presenti vari Centri antiviolenza, questo l’elenco disponibile sul sito dell’Asl Salerno.
Un fondamentale contributo nel Vallo di Diano è stato dato, senza ombra di dubbio, dal Comitato “Se non ora quando – Vallo di Diano”: la sua nascita, nel 2011, ha rappresentato un importante punto di partenza per rendere il nostro territorio più a misura di donna. Ne abbiamo parlato con Maddalena Robustelli che, in occasione del decimo anniversario del Comitato, ci ha illustrato le tante attività e iniziative svolte negli anni.
- Com’era la situazione prima della nascita del “Comitato se non ora quando – Vallo di Diano” e com’è cambiata?
Ho iniziato a fare politica nel 1994, il tema della violenza di genere non era particolarmente sviscerato e non se ne parlava nelle scuole tant’è vero che dopo la nascita del “Comitato Se non ora quando” siamo andate proprio nelle scuole a far vedere il famoso documentario di Lorella Zanardo “Il corpo delle donne” che riguardava la rappresentazione stereotipata della donna. Ebbene, i ragazzi del Liceo Classico, a quei tempi, non erano pronti a quel genere di dibattito culturale. Nel corso degli anni la sensibilità è aumentata ma certamente non grazie al Comitato ma perchè il Comitato ha fatto da megafono alle iniziative nazionali. Se c’era da parlare del sexting lo facevamo, se c’era da fare un flash mob mettendo le scarpe rosse sulla scalinata che porta a piazza Umberto I a Sala Consilina, chiamavamo i ragazzi del Classico, lo facevamo e in seguito rappresentavano la loro idea di violenza, le loro canzoni, le loro poesie. Posso dirti con certezza che dal 2011 ad oggi la sensibilità nelle scuole è aumentata perché il tema è quotidiano, i ragazzi lo ascoltano dai resoconti giornalistici e televisivi e dalla lettura dei giornali.
- E il ruolo del Comitato è stato fondamentale perchè si è occupato non solo della violenza di genere ma anche dei diritti delle donne a 360 gradi.
Certamente. Siamo andate nelle scuole e abbiamo illustrato il percorso delle leggi che dal 1946 ad oggi hanno rappresentato delle conquiste in temi di diritti civili, con tutto il cammino dei diritti delle donne perché è importante comprendere che ci sono dei diritti lesi in Italia, anche oggi. Infatti, se andiamo a vedere le statistiche, vediamo che le donne dopo la prima gravidanza abbandonano il posto di lavoro perché non sono in grado di conciliare i tempi della famiglia con i tempi del lavoro. Dunque, il raggio d’azione del Comitato è stato quello di rendere consapevoli le donne del Vallo di Diano, le giovani donne, i giovani uomini e più in generale tutta la comunità di come si possa combattere insieme le discriminazioni perché un Paese dove vengono lesi i diritti delle donne è un Paese che non è completamente sviluppato: ci sono studi economici che prevedono che laddove le donne raggiungono carriere apicali, rompono il famoso soffitto di cristallo e accedono a ruoli dirigenziali, tutta l’economia salta con un balzo in avanti. Il Comitato si batte affinché l’Italia diventi una nazione più a misura di donna perché ad oggi dobbiamo comunque fare i conti con dei deficit di democrazia fondamentale che poi sono anche le cose più semplici.
- Cioè?
Anche chiamare “la sindaca”, “la consigliera comunale”, cioè declinare al femminile ruoli dirigenziali, ruoli politici o ruoli del professionismo come “architetta”. Si tratta di una battaglia difficilissima che ci vede in prima linea con una campagna nazionale fatta dal “Comitato Se non ora quando” nazionale che si chiama “Donne con la A”, alla quale abbiamo aderito. Non è peregrino che per esempio sia facile chiamare l’assistente sanitaria “infermiera” ma poi ci sono forti difficoltà quando si devono declinare al femminile determinate professioni come ad esempio l’avvocato, guarda che non tutte le donne avvocato si fanno chiamare “avvocate”.
- Pensa che questa sia una forma di discriminazione?
Si, che vede nemiche molte donne. Io l’ho studiato assieme ad una delle più grandi linguiste italiane che si chiama Cecilia Robustelli, docente di lingua italiana a Modena (non siamo parenti): lei ha redatto le linee guida del linguaggio al femminile da utilizzare nelle pubbliche amministrazioni però sembra quasi che sia una battaglia politica perché se vai a vedere le donne di destra si vogliono far chiamare “deputato”, “architetto”. E’ difficile costruire un Paese a misura di donna perché sai quante volte mi ritrovo sui blog a dover commentare donne che scrivono: “Ma come, si perde il lavoro, si viene uccise e tu vieni a insistere con la declinazione al femminile?” allora io rispondo: “Si combatte per i diritti delle donne a 360 gradi”, se noi neghiamo i termini “sindaca, ingegnera, avvocata…” noi neghiamo che ci sono delle donne che rappresentano quella professione perché chiamarle al maschile confligge, come dice la professoressa Robustelli, con la loro realtà di essere biologicamente donne.
- Cosa si può fare ancora secondo lei per contrastare la violenza sulle donne?
Partiamo dal presupposto che si tratta di un problema a carattere culturale e, come dice il nostro Presidente Mattarella, parliamo di una vera e propria emergenza. Lo dico a te che sei giornalista, anche i media possono svolgere un ruolo fondamentale. Io mi batto da anni perché ogniqualvolta trovo un articolo di giornale in cui si parla di raptus o di follia omicida, replico dicendo che sono soggetti pienamente coscienti, capaci di intendere e di volere e che rappresentare la violenza sulle donne come un episodio di turbe mentali o psichiatriche non corrisponde alla realtà: il raptus infatti è un impulso di pochi secondi ma quando un soggetto porta con sé un coltello o fa in modo di cogliere la vittima perché l’ha inseguita o perseguitata, stalkerizzata, nel momento in cui è sola, allora non è follia. Sono pochissimi i casi in cui gli autori di femminicidi sono affetti da turbe psichiatriche, quindi anche la stampa ha un ruolo fondamentale, soprattutto quando vanno a rivittimizzare la povera donna morta. Stesso discorso nei casi di figlicidi: quando si racconta che i bambini sono stati uccisi perché la donna voleva separarsi si commette il più grande reato di violenza verbale da parte di un giornalista perché a parte che quella mamma rimarrà condannata a vita ad un dolore senza fine, non è la separazione che induce l’ex partner ad uccidere i figli ma è piuttosto la volontà di punire l’ex moglie. Quindi, accanto a quelle che sono le leggi che a carattere penale puniscono la violenza contro le donne, ci deve essere un impegno a 360 gradi delle realtà sociali.
- Un chiaro esempio è l’inaugurazione, all’interno della Compagnia Carabinieri di Sala Consilina, dell’aula per le audizioni delle donne vittime di violenza, realizzata nell’ambito del progetto “Non sei più sola”.
Sì. In rete queste tre realtà private, Comitato, Lions Club Sala Consilina-Vallo di Diano Distretto 108 YA e Banca Monte Pruno, si sono messe d’accordo con l’Arma dei Carabinieri per la creazione di un luogo accogliente perché per le donne non è facile denunciare, soprattutto se ci sono di mezzo dei bambini. Questa stanza è la prova che quando c’è una buona sinergia tra le Istituzioni pubbliche e private, si possono creare dei contesti favorevoli.
Le Istituzioni pubbliche devono, però, essere preparate perché molte donne non denunciano perché sanno che nel momento in cui verranno giudicate per il reato di violenza subita, probabilmente verranno rivittimizzate, nel senso che ricadrà su di loro la responsabilità. Difatti, se un magistrato o una magistrata non comprende perché non è preparato con corsi specifici a comprendere la violenza di genere, può avvenire lo stesso meccanismo che ti ho spiegato prima facendo l’esempio dei giornalisti. E’ come quando una ragazza che va a fare una denuncia si trova davanti un esponente delle Forze dell’Ordine che dice: “Ma tu avevi la minigonna”, non è l’abito che induce lo stupratore a commettere la violenza ma è quella sua particolare indole che gli porta a considerare il corpo della donna un oggetto a sua disposizione. Tante donne, purtroppo, non denunciano perché ci sono stati processi in cui gli stupratori sono stati assolti perché la donna non ha reagito, non ha gridato o opposto resistenza.
- Avete altre iniziative in programma come Comitato?
Vorremmo riproporre un’aula per le audizioni anche per il Pronto Soccorso dell’ospedale di Polla, lo abbiamo già proposto 4 anni fa e 2 anni fa però abbiamo avuto il silenzio delle Istituzioni nel senso che non ci hanno proprio risposto.
Su questa cosa mi sento invece di ringraziare particolarmente la Banca Monte Pruno: per noi è stata un partner fondamentale perché ci ha accompagnato in vari percorsi, come ad esempio la presentazione di un libro di poesie di una nostra socia e la nostra presidente Rosy Pepe ha lavorato sinergicamente a convegni sulla violenza di genere organizzati proprio dalla Banca a Sant’Arsenio.
- Per concludere, cosa consiglia alle donne e alle donne vittime di violenza?
Innanzitutto le donne devono avere consapevolezza dei diritti di cui sono titolari, per cui ogniqualvolta subiscono anche un abuso nel mondo del lavoro, come molestie o una retribuzione inferiore rispetto a quella del collega uomo a parità di mansione, devono sempre rivendicare i propri diritti, questo è fondamentale.
Poi, se andiamo a guardare la violenza di genere, le donne devono avere la consapevolezza che occorre denunciare e mettersi in gioco, anche se magari sentono delle voci a loro amiche che dicono “Ma no, che vai a denunciare a fare, tanto non sei creduta, tanto lui non sarà condannato o se la caverà con poco”. Dobbiamo riuscire a smuovere questo macigno culturale secondo cui per esempio le donne sono persone di serie b oppure che subire la violenza è un destino a cui non si può dire di no perchè purtroppo alcune donne lo considerano un destino ineludibile. Ecco perché si tratta anche di una battaglia culturale: la donna che ha il coraggio di denunciare non lo fa solo per sé stessa, lo fa anche per tutte le altre. Se una fa da apripista, può darsi che anche altre trovano questo coraggio. E’ una battaglia difficile perché devi essere creduta dalle Forze dell’Ordine e dalla società: quante volte le donne che denunciano vengono condannate dalla propria comunità perché magari il denunciato è una persona famosa, è un intoccabile, oppure le minorenni che denunciano, aiutate dalle loro famiglie, spesso sono costrette ad abbandonare i propri paesi, soprattutto al Sud, perché hanno un’onta. Ecco perché intorno alla donna che subisce violenza si deve creare tanta solidarietà umana, non si può condannare una ragazzina ad una gogna che non ha fine solo perché purtroppo ha subito una violenza di gruppo, sono cose che fa male raccontarle però purtroppo questa è la realtà italiana.
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