Il 27 gennaio ricorre il Giorno della Memoria al fine di ricordare le leggi razziali, la persecuzione, la prigionia e la morte che il popolo ebraico ha dovuto subire per colpa di un’ideologia scellerata.
In Italia questa giornata è stata istituita dal Parlamento con la legge 211 il 20 luglio del 2000 e la stessa ricorrenza viene commemorata negli altri Paesi in seguito alla risoluzione 60/7 approvata dall’ONU il 1° novembre 2005. Perché è stata scelta proprio questa data? Il 27 gennaio del 1945 i carri armati dell’esercito sovietico dell’Armata Rossa abbatterono i cancelli del più grande campo di concentramento ad Auschwitz, in Polonia, e liberarono i superstiti. Ora il campo è un simbolo delle sofferenze di chi è stato internato con l’unica colpa di essere ebreo, zingaro, omosessuale o perché aveva idee politiche diverse da chi era al comando.
Non si possono cancellare anni pieni di sofferenza, umiliazione e morti innocenti ma si può ricordare e soprattutto capire affinché quello che è successo non si ripeta in futuro. Proprio per questo abbiamo raggiunto telefonicamente Tullio Foà, 90enne ed ultimo ebreo testimone dell’occupazione nazista a Napoli, che gentilmente ci ha concesso l’intervista che segue rendendoci parteci del suo dolore e raccontandoci quello che un bambino in tenera età ha dovuto subire.
- Signor Foà, cosa è successo alla sua famiglia quando furono emanate le leggi razziali?
Quando furono emanate le leggi razziali nel settembre del ’38, mio padre, vicedirettore di banca, andò a lavoro ma fu licenziato perché ebreo. Doveva cercare un altro impiego ed immigrò in Eritrea, nell’Africa orientale. L’Italia aveva conquistato le colonie, si presumeva ci fosse lavoro e lì le leggi razziali non erano arrivate. Papà partì nel 1939 e ritornò nel 1947. Quando andammo al Porto a prenderlo, chiesi alla mamma “Ma papà qual è?” perché non lo ricordavo dato che quando partì avevo solo 6 anni. Mio fratello più grande aveva finito il Liceo, voleva iscriversi all’università ma non gli fu permesso e partì per gli Stati Uniti dove c’erano due sorelle di mia mamma. Ora vive ancora lì ed ha 103 anni. A Napoli restammo 4 fratelli e mia madre: la prima cosa che fece mamma fu quella di trasferirci in una casa più piccola e modesta. Tutte le volte che si tornava a casa da scuola, notavamo che mancava qualcosa: mamma aveva venduto tutto quello c’era per darci da mangiare. Ad un certo punto le risorse da vendere finirono e ricordo che ci riunì e ci disse di trovare un sistema per far entrare tutti i mesi dei soldi per pagare l’affitto così decidemmo di affittare una stanza che fu data a Franco Calamandrei. Il Governo fascista ci tolse la radio e le notizie sull’andamento della guerra non le conoscevamo. C’era una radio clandestina da Londra di un signore che parlava perfettamente la nostra lingua, si inseriva sulle frequenze italiane e trasmetteva messaggi strani. La mamma si accorse che questo signore sentiva radio Londra e lo mandò via.
- Quali sentimenti riaffiorano quando ripensa agli anni di scuola?
Della scuola ricordo cose non belle perché quando sono nate le leggi razziali praticamente non potevamo andare. In seguito cambiarono la legge e se in una città si poteva organizzare una classe solo di bimbi e bimbe ebrei, dalla prima alla quinta Elementare, si poteva frequentare la scuola pubblica. Napoli si organizzò e venne scelta la Scuola Vanvitelli quindi noi, 7 maschi e 3 femmine, siamo stati la prima classe mista in Italia. Entravamo da un cancello secondario un quarto d’ora prima degli altri bambini ed uscivamo un quarto d’ora dopo. La ginnastica la facevamo in classe ed in bagno potevamo andare solo quando gli altri bambini erano rientrati nelle classi. E’ un ricordo di emarginazione. Come fa un bimbo di 5 anni a capire che non può stare vicino agli altri bimbi a scuola se poi quando torna a casa, dopo aver mangiato e fatto i compiti, va in strada e gioca con chi era di altre religioni? Era molto difficile.
- Ricorda le Quattro Giornate di Napoli? Cosa ha provato alla vista degli Alleati?
Si era capito che stava succedendo qualcosa però la mamma ci teneva severamente chiusi in casa. Napoli è stata la prima città al mondo che si è liberata dai tedeschi senza l’aiuto di nessun esercito e quando sono arrivati gli alleati era già libera. Ricordo che andammo per strada a salutarli applaudendo e lanciando loro dei fiori e loro ci lanciavano le caramelle e le gomme da masticare (noi non sapevamo nemmeno cosa fossero).
- Come si comportò la popolazione napoletana? Vi era amica?
La popolazione era contro le leggi razziali. Anche la mia famiglia nel suo piccolo è stata aiutata in primis dal Commissario della zona in cui abitavamo che mandò a chiamare mia madre e le disse di cambiare casa ed intestarla ad una persona non ebrea in modo tale che se qualcuno gli avesse chiesto dove fosse la famiglia Foà, lui avrebbe risposto di non saperlo. Trovammo un amico di famiglia cattolico che si assunse questa grande responsabilità di intestarsi il contratto dell’affitto. La terza persona fu un brigadiere della Questura che quando fu interrogato su dove stavamo disse di non sapere nulla e di non conoscere nessuno.
- Qual è il motivo che la spinge ad andare soprattutto nelle scuole a portare la sua testimonianza?
Il motivo che mi porta ad incontrare i giovani è quello di raccontare quello che è successo. I ragazzi vogliono sapere cosa è successo. Spero che non ritornino più questi periodi anche se stiamo attraversando un momento triste con tutto quello che sta accadendo in Israele. Dopo tutto quello che leggo che sta capitando lì e le ritorsioni che si hanno nel mondo civile dove Israele è stata attaccata e si sta difendendo, quando vado nelle scuole mi chiedono perché non ci siamo difesi dai tedeschi e adesso che gli israeliani si difendono dai delinquenti di Hamas vengono indicati come gente che va ammazzando altra gente. Sentendo in giro questo rigurgito di negazionismo e parole contro gli ebrei, dato che non si riescono a distinguere gli israeliani dagli ebrei nel mondo, mi sono chiesto se fosse il caso di continuare ad andare nelle scuole a raccontare la mia storia. Mi sono reso conto, dopo una riflessione molto intima, che è opportuno continuare.