“La vita di Antonio non vale una condanna a un anno e sei mesi, tra l’altro sospesa”. E’ questo il pensiero della famiglia del giovane operaio di Potenza, Antonio Caggianese, morto all’età di 27 anni il 26 febbraio 2018, a seguito di un incidente sul lavoro all’interno dell’azienda dove lavorava, nell’area industriale di Tito Scalo.
Nei giorni scorsi, a conclusione del procedimento penale, il Tribunale ha condannato a un anno e sei mesi l’amministratrice dell’azienda per il reato di omicidio colposo e violazione della norma antinfortunistica, oltre a tre assoluzioni. “Inutile negare – ha dichiarato a Ondanews Giusi, la sorella di Antonio – la profondissima delusione per una sentenza che non rende per niente giustizia a mio fratello. Alla lettura della sentenza è stato come aver ucciso di nuovo Antonio”.
Per la famiglia servirebbero pene ben più severe per le morti sul lavoro. “Come si può credere in un sistema simile? Che giustizia è questa?”, si chiede la sorella Giusi, che aggiunge: “Mio fratello sicuramente non mi verrà restituito in alcun modo ma il messaggio che passa è tremendo: chi sbaglia non paga, o paga poco. La vita di un povero ragazzo che era lì per lavorare, per fare ciò che gli era stato detto, non può valere una condanna a un anno e sei mesi con relativa sospensione della pena. Credo sia un fallimento per uno Stato che si professa civile e soprattutto fondato sul lavoro”.
Antonio, lo ricordiamo, perse la vita dopo essere rimasto incastrato in alcuni ingranaggi di una macchina vagliatrice di rifiuti. Fatale fu un politrauma da schiacciamento. “Un processo – ha aggiunto la sorella – durato quattro anni, basato solo ed esclusivamente sulla presenza di un maledetto lucchetto che avrebbe dovuto bloccare il cancello del vaglio rotante dove mio fratello ha perso la vita. Nessuno si è chiesto perchè mio fratello fosse andato lì, perchè accanto al suo corpo è stata rinvenuta una scopa, perchè in quel cancello c’erano svariate scope logorate, perchè il corpo di mio fratello è stato rinvenuto bloccato lì se invece dagli accertamenti irripetibili era venuto fuori che il vaglio non si fermava in alcun modo. Troppi perchè che non hanno trovato risposta, e non solo per il clima di omertà calato in azienda sin dal primo momento, ma anche e soprattutto per indagini lacunose e un processo, a mio parere, molto ma molto superficiale”.
La famiglia è stata difesa nel procedimento dall’avvocato Daniele De Angelis.
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