Ottobre è il mese dedicato al lutto perinatale ossia quel lutto che si genera per la morte di un bambino in gravidanza, prima della nascita, durante il parto o poco dopo il parto.
È una perdita estremamente traumatica per la famiglia colpita che si trova, così, a dover far fronte alla perdita, al dolore e alla mancanza. La perdita di un figlio nato morto o morto dopo la nascita simboleggia, dunque, la perdita di una nuova fase della vita. Un evento, tra l’altro, poco pensabile: questo tipo di lutto infatti richiede di dar senso alla morte laddove dovrebbe esserci la vita.
Oggi ricorre in tutto il mondo il BabyLoss Awareness Day ovvero la Giornata Mondiale della Consapevolezza sulla perdita di un bambino in gravidanza o dopo la nascita.
Ne abbiamo parlato con la dottoressa Claudia Ravaldi, medico psichiatra e psicoterapeuta, che ha deciso di occuparsi di lutto perinatale a partire dalla sua esperienza personale. Ventotto giorni dopo la nascita e la morte di Lapo, Claudia e suo marito Alfredo hanno fondato “CiaoLapo”, un’associazione non lucrativa rivolta agli operatori sanitari di area materno fetale, alle donne e ai loro partner colpiti da lutto perinatale durante la gravidanza o dopo la nascita, per qualunque motivo. In Italia è la prima associazione che si è occupata di prevenzione, sostegno e cura della salute perinatale.
- Dottoressa, come è nata “CiaoLapo”, cosa fa e come diffondete le vostre attività?
‘”CiaoLapo’ nasce nel 2006 dopo un evento personale: io e mio marito abbiamo perso il nostro secondo figlio, che è nato morto al termine della gravidanza. Questa vicenda, oltre ad essere drammatica, si è caratterizzata dal fatto che l’assistenza in ospedale e dopo le dimissioni è stata semplicemente di natura medica. Dunque, il sostegno post partum, gli esami, le prescrizioni adeguate, la visita dei 40 giorni: tutto si è fermato lì. Tutto quello che era relativo agli aspetti psicologici è stato completamente trascurato e questo ha comportato una serie di situazioni e mancanze successive. Noi come genitori, ma anche come operatori della salute, ci siamo chiesti perché in Italia il lutto perinatale non avesse uno spazio di gestione. Da qui è nata l’idea dell’associazione che inizialmente era davvero piccolissima: negli anni è cresciuta ed è diventata una realtà nazionale con importanti collaborazioni internazionali. Siamo riusciti a fare una grande rete perché questo tema è molto sentito, anche se nascosto. Riguarda una donna incinta su 6 nel nostro Paese, addirittura una su 4 se andiamo a guardare le situazioni estremamente complesse di cattiva assistenza sanitaria. Ne contiamo 60mila ogni anno: quindi non c’è da stare tranquilli. Capita tutti i giorni a tante donne, più spesso nella prima metà della gravidanza (quindi entro la 20esima settimana) ma, in misura minore, a circa 3/4mila ogni anno nel secondo trimestre o dopo la nascita. Quindi è un tema urgente da considerare perché ancora oggi, soprattutto al Sud, è ancora molto raro che venga affrontato dal punto di vista psicologico. Bisogna parlarne perché in Italia non c’è una linea guida che aiuti gli operatori sanitari ad occuparsi bene della tematica. Questo comporta che il 70% delle donne viene dimesso senza assistenza con il rischio di sviluppare, nell’anno successivo alla perdita, ansia e depressione. Si tratta di un lavoro reso noto da poco, sono delle stime: se così fosse anche in Italia circa 20mila donne ogni anno si ammalerebbero in risposta ad un evento che però dal nostro Stato non viene calcolato”.
- Può essere utile affidarsi ad un percorso psicologico?
“In realtà il lutto è una risposta fisiologica ad una perdita che per una persona è significativa. Non tutte le persone reagiscono ad una perdita, di qualunque tipo, con la stessa intensità di lutto perché ognuno reagisce soggettivamente e in base a quello che chiamiamo ‘legame prenatale’. Ovviamente più la gravidanza era voluta più si alzerà la severità del lutto. È anche un bene perchè il lutto riguarda tutti gli esseri umani e addirittura i mammiferi (elefanti, ad esempio) con cui condividiamo la stessa modalità di reazione ad una perdita, anche se non condividendo lo stesso linguaggio di base possiamo vedere solo i comportamenti. L’evento perinatale ha comportamenti simili in tutti i mammiferi maggiori; non è strano che il nostro modo di reagire sia un lutto perché, su alcune ricerche condotte sugli animali, è così: questo perché la componente della relazione che viene a mancare può essere estremamente grave. Questo evento, che di per sé durerebbe un anno, un anno e mezzo, può incontrare un percorso più critico. Non è detto che le persone con lutto perinatale sviluppino ansia e depressione, sono in realtà circa un terzo. In realtà ci sono delle cose da fare ma prima di un supporto psicologico ci sono tre fattori importanti che voglio condividere: il ‘tempo zero’, cioè è molto importante, per il nostro lutto, elaborarlo in maniera sana e avere tutte le possibilità di essere trattati con rispetto, quindi con operatori formati. Essere accuditi bene in ospedale dal punto di vista medico e psicologico abbatte il rischio di lutto complicato. L’altro punto è la relazione con i familiari, problema molto diffuso: quando il partner non è supportivo perché magari esiste già un conflitto di coppia da prima della gravidanza o l’evento non è sostenuto dai familiari. L’assenza, inoltre, di un consultorio pubblico che possa aiutare le famiglie magari senza possibilità economica porta spesso a non cercare sostegno. Questo significa un rischio perché nei primi mesi noi operatori siamo capaci di capire come andrà il lutto e se esiste un reale bisogno. Quindi sarebbe importante, dopo la dimissione dall’ospedale, stabilire un controllo: se vediamo che nei primi due mesi siamo ancora fermi al primo giorno e abbiamo pensieri di colpa, responsabilità, questi sono indicatori che ci dicono che è importante parlarne con una persona qualificata che sappia cosa significa perdere un bambino in gravidanza. Questi sono aspetti che dovrebbero essere conosciuti da tutti i cittadini e le cittadine perché è difficile capire da soli se abbiamo bisogno di un sostegno. Noi nel nostro Paese non parliamo di lutto quindi molte persone spesso ci scrivono frasi del tipo ‘Sto soffrendo troppo, non sono normale?’, è come se non si avesse dimestichezza della gestione del lutto. ‘CiaoLapo’ cerca di supportare da anni attraverso un primo accompagnamento via mail o via telefono perché l’obiettivo non è rimuovere tutto o superare ma capire di cosa possiamo avere bisogno. Un lutto fisiologico ha un suo corso, un lutto complicato un altro. Sapere quali sono le situazioni che possono rendere un lutto difficile perché solo così possiamo evitare che qualcosa di fisiologico diventi altro. Dobbiamo tutelare la nostra salute psicologica esattamente come facciamo dal punto di vista fisico”.
- “La prossima volta andrà meglio”, “Sei giovane”. Sono le frasi più ricorrenti che una mamma, dopo una perdita perinatale, sente rivolgersi. Questo porta ad una percezione distorta, quasi come se si trattasse di un lutto secondario.
“Queste frasi sono gravi ed irrispettose. Non sono di nessuna utilità per la mamma ma servono alle persone per tenerle da parte, ai margini. Non sono frasi di lutto e vicinanza ma frasi per sottolineare che non è un dolore vero. Dire ‘smetti di piangere’o ‘ne farai un altro’ è un danno! Se tutti intorno fanno capire che è un lutto di ‘serie b’ la percezione per la mamma sarà di non essere normale. Io non posso sentire il tuo lutto ma posso capirlo da fuori, non posso sentire il peso della tua relazione privilegiata con il bambino perché è, appunto, tua. Finchè la nostra società, invece, vorrà insegnare a superare un lutto senza sapere in realtà come fare, noi continueremo a stare così, cioè ad avere una cultura che di fatto complica l’elaborazione perché non aiuta a stare meglio. Questo è un problema culturale molto grave e discriminatorio. A chi perde un nonno non viene detto ‘ne hai altri tre’, invece per chi perde un bambino, che magari non ha mai visto, subentra la smania di spiegare come reagire. Molti ospedali, poi, ancora oggi con poche risorse (altro problema) fanno delle scelte e garantiscono supporto solo da una certa settimana di gestazione in poi: del tipo, prima delle 25 settimane non hai fatto in tempo ad affezionarti e quindi non è necessario. Questo porta ad essere cittadini secondari”.
- Si tende a considerare questo evento un tabù?
“Uno dei problemi più grandi di cui stiamo discutendo con i nostri partners internazionali è proprio lo stigma ossia tutto ciò che isola una persona che porta un’esperienza di vita che può essere una malattia mentale, un lutto, e che in qualche modo ghettizza una persona. La nostra società è andata avanti nascondendo le storie che fino a 20 anni fa non era possibile raccontare. Il tabù era forte, ora di meno grazie anche ai social ma anche alle donne che sentono di poter raccontare la propria esperienza e rompere il silenzio. Il tabù ha una conseguenza diretta perché impedisce il sostegno sociale e rovina l’elaborazione del lutto. In alcune regioni italiane esiste ancora una cultura che non incoraggia la competenza emotiva ma che alimenta un tabù. Se una su 6 vive questa esperienza è inutile nascondere ma è necessario, invece, far conoscere. La società deve imparare a gestire il lutto perinatale ed è urgente svolgere azioni che educhino a riconoscere un fenomeno che riguarda il 18% delle donne”.
- Il lutto avrà un termine ma il dolore è inesauribile. In conclusione, cosa sente di consigliare a quelle mamme che stanno vivendo la traumatica esperienza di una perdita?
“Intanto dico di rallentare il passo e viaggiare con la ‘macchinina’ a 30 km/h e non a 120 km/h. Bisogna rallentare perché il nostro cervello è fatto di cellule con una loro vita e una loro programmazione. Il cervello per elaborare una ferita impiega di più rispetto ad un ginocchio sbucciato perché esiste una complessità e quindi il lutto si affronta con calma, come se fosse una maratona e non uno scatto. Dobbiamo camminare e allenare il fiato, monitorare quel tempo che ci prendiamo, che è di circa 6 mesi minimo, essere gentili nei nostri confronti e andare a guardare come stiamo reagendo senza pregiudizi. Non pesiamo le lacrime ma usiamo il tempo come se stessimo imparando delle cose nuove, impariamo i nostri punti deboli che possono essere pericolosi. L’idea che tutte le volte, ad esempio, se si parla di bambini ci si allontana, può essere un punto debole importante. Imparare le nostre reazioni e capire a cosa ci servono ma anche come possono complicarci la vita. Il primo anniversario è molto duro, ma se anche i conseguenti lo sono e non è cambiato niente questo racconta che il lutto non è elaborato. Questo non significa non essere stata brave ma semplicemente che si è andate troppo veloci o non si è elaborato per motivi che spesso non sono neanche volontari (altri figli, genitori malati, lavoro precario) a portano a non ‘mettere in moto’. Abbiamo bisogno almeno una volta al mese di fermarci e capire cosa stiamo facendo. La propria velocità, il tempo di viaggio, l’analisi con le nostre risorse ed i punti deboli: siamo noi che dobbiamo gestire questo processo, gli altri purtroppo non possono farlo al posto nostro. Non è vergogna metterci del tempo, non è vergogna avere bisogno di aiuti esterni. E’ segno di grande intelligenza emotiva avere cura di sé stessi dopo una perdita perché la società può dire che vuole ma se una persona tiene alla propria felicità bisogna che sappia riconoscere ed elaborare un lutto”.
“Ma l’importanza di una vita non si misura con il tempo. Ci sono vite che hanno generato un vortice d’amore così potente da non potersi mai fermare. Piccole vite di grande importanza. Bambini. Figli. Tesori. Passati di qui in un lampo lasciando una scia di luce”.
Claudia Ravaldi