Sapere, capire e ricordare sono i verbi più impressi nella testa di uno studente. Sono i principi su cui i professori fondano i loro insegnamenti, quello su cui insistono anche se uno studente, in un primo momento, non si rende conto del perché.
Crescendo, poi, tutto all’improvviso appare più chiaro: sapere per capire e capire per ricordare. Tutto collegato, tutto intrecciato, come una tela impressionista che da vicino sembra un caos di colori ma che da lontano, dalla giusta distanza, fa vedere un meraviglioso dipinto.
Questa premessa per introdurre l’importanza della Giornata Internazionale della Commemorazione in memoria delle vittime dell’Olocausto, istituita il 1° novembre 2005 dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il 20 luglio del 2000, però, in Italia è stata approvata la legge numero 211 che ha istituito il “Giorno della Memoria”, sempre il 27 gennaio, per ricordare la Shoah ma anche “le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati”.
E in nome della memoria, dunque, ricordiamo un ragazzo di Teggiano, celebrato in nessun libro di storia, e come lui tanti altri che hanno pagato con la propria vita una colpa non loro.
Antonio Gallo è nato a Teggiano il 30 giugno del 1922, da papà Cono e mamma Michela, ed era un militare appartenente al 277° Reggimento di Fanteria (distretto militare di Salerno).
“E’ sempre stato un ribelle” ripeteva sempre Rosa, una delle sorelle di Antonio. Rosa amava raccontare ai suoi nipoti quello che lei stessa definiva il “gesto eroico” del fratello: Antonio, infatti, salvò la madre, incinta tra l’altro, da una imminente fucilazione da parte dei soldati tedeschi. “Sputò in faccia ai tedeschi per salvare mamma” raccontava orgogliosa ai suoi nipoti. E difatti a Michela fu risparmiata la vita.
Non è chiara la punizione riservata ad Antonio, quello che si sa per certo è che il coraggioso soldato teggianese è morto il 27 marzo 1943, a soli 20 anni, prigioniero in Russia, nel Campo 53 ad Aleksin, nella Regione di Tula, a circa 175 km a sud di Mosca. In questo campo di prigionia sono morti 425 soldati italiani. Nell’area è stato posto un cippo commemorativo in loro ricordo (nella foto). Nella prima parte si trovano le fosse comuni usate fino a dicembre del 1943, dove si trovano anche i resti di Antonio, mentre nella seconda parte si trovano le sepolture singole usate negli anni successivi in cui le morti erano meno frequenti.
Il Campo 53 di Aleksin è solamente uno degli oltre 300 campi di prigionia e ospedali lager in cui sono stati ristretti i militari italiani catturati tra il 1942 e il 1943. Molti sono morti di freddo, di stenti e di malattie infettive e seppelliti poi in fosse comuni.
La storia di Antonio è dunque la storia di tutte quelle persone di cui non si conoscono le gesta, le fatiche, le paure, le immani sofferenze ma è anche e soprattutto di loro che ci dobbiamo ricordare perché loro sono parte integrante della storia che abbiamo studiato sui libri, loro sono quelle “macchie” di colore apparentemente anonimo che vanno a comporre il dipinto. Perché il loro coraggio ed il loro sacrificio hanno fatto sì che venisse fuori il capolavoro che ammiriamo tutti i giorni, un capolavoro senza tempo e senza prezzo che si chiama libertà.