Lettera aperta alla redazione – di Franco Iorio
Un antico poeta cinese disse che “lo scrivere è come le nubi e i fiori, che si formano naturalmente, come risultato dell’accumularsi di certe forze, e devono cercare l’espressione di qualcosa che è dentro di loro”.
Io, che non sono niente, dico che scrivere è un bisogno. Magari dell’anima, della mente, specie se c’è chi ti sollecita. Così, sperando di dire cose non banali, vorrei parlare del libro di Antonio Polito uscito il 12 ottobre scorso col titolo “Riprendiamoci i nostri figli”.
Il tema di fondo è l’essere genitori oggi, riflettere sul quotidiano disagio dei giovani, sulla fragilità che spesso si veste di violenza, interrogarsi sul loro mondo che crediamo di conoscere. Anche di capire. E invece… Oggi più che mai i genitori hanno doveri verso i figli preponderanti rispetto ai diritti. Tra questi ultimi, padre e madre reclamano il diritto all’amore, vogliono l’amore dei figli, dato per scontato. Ma non di rado manca o almeno non c’è riscontro. Ci vorrebbe forse una scuola per genitori, dice Polito. Non bastasse, allora una coalizione con insegnanti, campioni dello sport, mass media, star, intellettuali e divi della canzone per reintrodurre nella quotidianità il tema dell’educazione. Questa, sì, nodale ed effettiva emergenza nazionale.
“Riprendiamoci i nostri figli” non è un libro di lezioni per genitori, quanto piuttosto una condivisione di esperienze. Ecco, il padre non veste i panni dell’eroe perché appare solo, contro una serie infinita di nemici che si frappongono tra lui e il figlio. Antonio Polito ne fa un elenco e comincia dalla scuola. Che ha rinunciato al suo ruolo culturale e formativo, che promuove tutti a fine anno e livella al ribasso danneggiando i figli dei poveri e quelli dei ricchi. Senza contare che questi ultimi troveranno sempre il modo di farcela.
Poi ci mette i tradizionali punti di riferimento: la religione, la politica, anche la scienza. Rimpiazzati dai social e dalla pubblicità. Come dire che è venuta meno l’autorevolezza, ossia quella particolare capacità di coinvolgere e influenzare i comportamenti, riscuotendo fiducia e stima. Infine, e non per ultimo, tra i nemici é annoverato il disturbo narcisistico che ha cambiato e sostituito le regole del vivere insieme con gli stati d’animo, con il sentimentalismo, con le emozioni. Qui troviamo accomunati figli e genitori. Però la famiglia, per farsi obbedire dai figli, ricorre inutilmente al principio di autorità e allora è costretta a corteggiarli, a lusingarli, a blandirli, pensando di proteggerli dai pericoli della vita.
Se poi si aggiungono gli analisti dei talk show che “il male del vivere” lo trattano come una malattia da guarire invece che come un bivio per maturare, il rischio dell’incomunicabilità padre-figlio diventa realtà di vita giornaliera. Mettiamoci lo smartphone come momento di frattura non ricomponibile tra genitori-figli, va da sé che si rivelano inutili se non dannose le conoscenza ereditate dal passato.
Diviene difficile senza alleati educare un figlio, specie quando tutto confluisce nel presentare la felicità come un libertarismo esasperato. Allora anche l’ultimo ciarlatano acquista agli occhi del figlio il peso di un premio Nobel. Nessuna meraviglia se oggi la piazza della rabbia dove ci si odia dietro pseudonimo è facebook. Ma se questo è la realtà nella quale viviamo, verrebbe voglia di alzare le mani e dimettersi.
Però è possibile dimettersi da genitori? No. Antonio Polito lo certifica con la dedica che apre il libro: “A Costanza, Adriano e Sofia, che non mi perderanno mai”. Parlarsi, dunque, guardandosi in faccia, senza facebook dove si riversano ansie e frustrazioni, dove si incontrano genitori che inveiscono contro il preside magari perché le aule già adesso sono fredde. E nessuno che chieda al ragazzo se ha freddo.
L’amore verso il figlio non si esprime nel dargli sempre ragione, però nemmeno nel pesare i suoi successi sulla base delle proprie misure. Così la vera missione di un genitore, non solo per Polito, si riassume nel proposito di saper trasmettere un patrimonio morale di valori, facendolo con l’unico strumento rimastogli: l’esempio.
– Franco Iorio –