Nell’agenda politica del Governo è tornato lo “Ius scholae“, un testo di riforma sulla concessione della cittadinanza per i minori che non sono nati in Italia. Lo ius scholae prevede l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte del minore straniero, nato in Italia o arrivatoci entro il compimento del 12esimo anno di età. Altre condizioni sono che risieda legalmente in Italia e abbia frequentato, per almeno cinque anni, uno o più cicli scolastici in Italia.
Per comprendere cosa significa non godere della cittadinanza italiana per uno studente ci siamo rivolti a chi questa storia l’ha vissuta sulla propria pelle. Pegah Moshir Pour, nata in Iran e trasferitasi a Potenza, è un’attivista per i diritti umani.
Sin da piccola combatte affinché si riconoscano dignità e pari diritti ai giovani di “terza cultura”, coloro che nascono da immigrati. Pegah ci ha consesso il suo tempo portando alla ribalta le difficoltà di chi non è riconosciuto come cittadino italiano.
- Pegah, dall’Iran sei arrivata in Italia con la famiglia a 9 anni e hai ottenuto la cittadinanza italiana molto tempo dopo. Durante gli anni di attesa ti è capitato di sentirti discriminata come “la straniera”? E dopo?
Nel 1999 sono arrivata e nel 2012, a 22 anni, ho ottenuto la cittadinanza. Sono stata l’ultima della mia famiglia a riceverla. Alla chiamata di mia mamma che me lo annunciava non ebbi una particolare reazione: era un diritto che mi è stato riconosciuto tardi e questo ha comportato la privazione di diverse esperienze e ha condizionato certe mie scelte. A quei tempi ero già rappresentante degli studenti e facevo attivismo sul territorio per il referendum sull’acqua, ad esempio, seppure non potessi ancora votare. Credo fortemente nella mobilitazione. Io ero quella che parlava l’italiano meglio degli italiani, ma restavo la straniera dal nome strano. Purtroppo, io e i ragazzi come me ci troviamo in un limbo che ci perseguita: per il Paese di nascita siamo stranieri perché lì non abbiamo vissuto, per la terra in cui viviamo siamo stranieri perché non ci siamo nati! Noi siamo una terza identità, una terza cultura che deve essere orgogliosamente portata avanti e valorizzata.
- Che peso ha essere riconosciuti dalla Stato come “italiani” rispetto alla costruzione della propria identità?
Ho trovato diversi punti di appoggio che mi hanno fatto sentire italiana: gli amici, le associazioni. Però quello che conta è il riconoscimento da parte dello Stato. Ad esempio, se dopo il diploma avessi voluto entrare a far parte dei Vigili del Fuoco non avrei potuto perché il primo requisito richiesto era la cittadinanza. In qualsiasi lavoro o bando è la prima richiesta. Non avere la cittadinanza italiana significa aver difficoltà ad aprire un conto in banca, ad affittare una casa. E’ fondamentale, dunque, agevolare le persone affinché ottengano la cittadinanza perché le fa vivere meglio, le fa integrare meglio e soprattutto vengono accettate prima dalla comunità.
- La scuola ti ha aiutato a comprendere le tradizioni e i valori dell’Italia?
Nel mio percorso scolastico ho sempre avuto almeno un docente che era l’esatto opposto dell’apertura e dell’integrazione. Ad esempio, ho avuto insegnanti che volevano bocciarmi a tutti i costi perché non mi volevano più in classe, pensando che potessi abbassare la qualità didattica del gruppo. Ho trovato altri docenti, invece, che mi hanno stimolata intellettualmente. I valori del Paese si acquisiscono dalla comunità in cui vivi, quindi il dialetto, la sagra del paese, la musica e i costumi tradizionali che sono diversi in tutta Italia. La scuola forma il senso critico ma i valori e le tradizioni li apprendi dal posto in cui cresci.
- Sin da piccola hai fatto della tua condizione una battaglia per i diritti civili. Oggi interessa il dibattito alle seconde generazioni, ovvero ai giovani, figli di immigrati?
A 15 anni, nel momento in cui mi sono resa conto che non ero cittadina italiana, mi sono allertata e arrabbiata. Avevo vissuto più in Italia che in Iran e non avrei mai immaginato di tornarci perché ormai il mio pensiero, la lingua delle mie emozioni erano in italiano. Per me l’Italia era già casa, ma quando ho capito che non mi era stata riconosciuta questa casa ho avuto l’esigenza di farmi sentire, di capire il perché mi fosse stata negata quella gita scolastica eccetera… Da lì ho capito l’importanza del senso civico e del raccontarsi agli altri perché anche gli altri devono mobilitarsi affinché io, come tante altre persone, possiamo vivere nello stesso Paese con gli stessi diritti e doveri e con la stessa importanza. I ragazzi che nascono e crescono in Italia sono italiani, non possono essere affiancati alla cultura o al quotidiano dei genitori perché quello è di un altro Paese. I figli sono i nuovi cittadini italiani e come tali devono essere trattati e appellati: non più “stranieri” e “immigrati” perché è davvero offensivo, soprattutto quando una certa destra ci usa come esempi per affiancarci all’immigrazione clandestina. E’ vergognoso, da cittadini ci sentiamo offesi e non rispettati.
- La tua opera di divulgazione ti ha portato persino al Quirinale, eppure c’è una parte della politica ostica allo ius scholae. Perché? Qual è l’elemento che fa schierare contro questo provvedimento?
Ne ha parlato chiunque, ma nessuno si è rivolto ai diretti interessati, alle persone come me. La mia voce è una delle tante che cerca di avvicinare le persone al problema. Il Quirinale è il posto più aperto del Paese, proprio il nostro Presidente Sergio Mattarella aveva aperto il dibattito sulla cittadinanza. Al contrario, i partiti di estrema destra fanno leva sull’ignoranza e sulla paura per portare avanti la propaganda di terrore che non rispecchia assolutamente la realtà. Purtroppo neanche la sinistra ha fatto un buon lavoro sul riconoscimento della cittadinanza. Nel 2015 in Parlamento bisognava votare su questo tema e la sinistra non si è presentata. Più andiamo avanti più ci saranno ragazzi di terza cultura che devono essere riconosciuti per poter lavorare in questo Paese. Abbiamo studiato, lavoriamo, lavoreremo, stiamo pagando le pensioni, quindi è anche una questione economica. Ne valgono la nostra dignità e la nostra presenza sul territorio. Se qualcuno avesse studiato saprebbe che l’italianità è tutt’altro che non contaminazioni. Ci sono influenze di tantissimi altri popoli. Continueremo a fare divulgazione affinché le persone capiscano come vivere in Italia.
- Cosa ti manca del tuo Paese natale, l’Iran?
Rivedere persone che ho vissuto per poco. Mi manca conoscere meglio il Paese, tutte le città, la sua storia e la sua cultura millenaria, però purtroppo non posso perché mi è vietato tornare in Iran.