Lasciare il proprio paese con una valigia di sogni e speranze: una storia comune a tanti giovani ma con la differenza, spesso, di un legame con le proprie radici che rimane indissolubile nel tempo, nonostante la distanza.
E’ quanto caratterizza la storia della dottoressa Ilaria Padovano, originaria di San Pietro al Tanagro, da circa 10 anni medico presso l’ospedale Ambroise-Paré di Boulogne Billancourt, nei pressi di Parigi, che contribuisce a portare la sua esperienza oltrealpe come reumatologa. Fa parte dell’associazione AMIP (Medici italiani a Parigi) sotto l’egida del Consolato italiano.
Dopo un periodo in Francia, proprio a Parigi, in cui ha svolto il progetto Erasmus, ha concluso il ciclo di studi con il massimo dei voti all’Università di Bologna. Ha così deciso di trasferirsi nella Capitale francese proprio per le sensazioni positive avute durante il periodo di Erasmus.
Ilaria non dimentica però le sue origini, nonostante da anni sia fuori, e ogni tanto torna a San Pietro al Tanagro dove vive il suo papà, Giuseppe.
L’abbiamo incontrata e, nel corso della chiacchierata, è emersa forte la sua passione per il lavoro e l’amore per il suo paese natìo.
- Dottoressa, come nasce la sua passione per la medicina e perché ha scelto proprio reumatologia?
Volevo fare il veterinario, poi la giornalista, amavo scrivere e gli animali. Poi dopo ho capito che volevo intraprendere qualcosa che avesse a che fare con l’uomo, la medicina è riuscita a coniugare tutte le mie passioni. In famiglia non avevo nessun medico e questo penso non sia stato un male, anzi, mi ha permesso di percorrere la mia strada. Ho avuto momenti molto duri, ma anche le piccole sconfitte devono indurre a non mollare, a portare avanti i propri obiettivi. Un ruolo importante lo ha rivestito mia nonna Bettina, che mi ha sostenuta fortemente e ha fatto il tifo per me, sempre. In seguito volevo specializzarmi in neurologia, ma avevo qualche dubbio. Circa 10 anni fa nella reumatologia c’è stata una rivoluzione con alcuni farmaci. La cura delle malattie reumatiche e autoimmuni ha cambiato la vita delle persone, vedevo che miglioravano. Ho pensato così che in questo modo si potessero aiutare davvero le persone e ho colto lo spunto per scegliere questa strada. Oggi mi occupo di malattie reumatiche autoimmuni.
- Di cosa si occupa all’ospedale Ambroise-Paré?
Ricopro il ruolo di “Praticien Hospitalier”, l’equivalente di un dirigente medico di Primo livello ospedaliero. Gestisco il Day Hospital reumatologico del mio reparto, faccio attività ambulatoriale, consulenze e sono specializzata in ecografia muscoloscheletrica ed interventistica articolare. Mi interfaccio fondamentalmente con pazienti adulti dai 18 anni in su che soffrono di malattie reumatiche croniche ed autoimmuni (artrite reumatoide, psoriascica, Spondilartrite anchilosante, artropatie legate a malattie infiammatorie intestinali soprattutto) ma anche di patologie meccaniche come l’artrosi. La mia passione è l’ecografia. Tutti i miei studi li ho fatti in Italia ma le specializzazioni in ecografia muscoloscheletrica e interventistica le ho svolte in Francia.
- Lei dopo gli studi ha deciso di trasferirsi a Parigi e non rimanere. Perché?
Si possono fare all’estero fino a 18 mesi di formazione, il mio primario all’epoca mi aveva dato l’ok e così l’ultimo anno di specializzazione l’ho fatto in Francia con grandi difficoltà: non parlavo bene la lingua, ma man mano mi adeguavo. Tra Francia e Italia ho preparato la tesi e, una volta ritornata è stato un periodo difficile. In Italia non avevo opportunità però volevo approfondire un poco le mie conoscenze: avevo 30 anni, uscire dal confine significava rapportarsi con un mondo diverso, imparare nuove lingue, vedere come si ragiona. Una cosa, dunque, che poteva arricchirmi. Quando mi è stato chiesto di tornare a Parigi, nonostante il contratto non fosse allettante e soddisfacente, ho accettato.
- Una scelta sofferta?
Sì, la scelta è stata un poco sofferta, a Bologna mi trovavo bene ma non avevo un lavoro certo, un’offerta che mi permettesse di dire “ok, resto”. E’ prevalsa la curiosità. All’inizio non è stato semplice: le difficoltà legate alla vita, Parigi è molto cara, il doversi anche ambientare in un contesto lavorativo diverso. La lingua la parlavo bene, ma non benissimo. In Francia i primi due anni sono fatti di gavetta con un ruolo detto “chef de clinique”, che non esiste in Italia. Sono anni durissimi, in cui si lavora tanto, sei responsabile degli specializzandi: quindi il giorno prima sei studente, il giorno dopo sei responsabile per altri. Ero molto frastornata.
- Che approccio ha avuto con la Capitale e cosa l’ha colpita?
Quello che mi ha colpito è l’apertura mentale delle persone, non so se perché è una metropoli o è una prerogativa della città. Ci sono persone da tutte le parti del mondo, si percepisce la facilità ad adattarsi a chiunque. Anche i pazienti sono diversi: se si pensa che nel mio caso, appena arrivata, ero un giovane medico straniero, parlavo ma non perfettamente, posso dire che non ho avuto mai pregiudizi, solo disponibilità. I francesi, poi, sono innamoratissimi dell’Italia: al di là della rivalità legata a cucina e moda, apprezzano il nostro Paese e lo collegano ad un luogo accogliente. Questa cosa mi ha stupita e incoraggiata e mi ha fatto capire un fatto importante: le esperienze devi farle tu in prima persona, sia nel lavoro che nel rapporto con gli altri, ed evitare i clichè. Puoi ascoltare gli altri, ma è importante ciò che vivi tu.
- Quali le differenze legate alla sanità tra Francia e Italia?
Il sistema è simile, sono entrambi gratuiti. L’organizzazione è però diversa: in Francia la burocrazia è pesante come in Italia ma in alcune cose, però, ha procedure più semplici. Lo noto anche in un ospedale piccolo come quello dove opero io. C’è più personale nell’amministrativo e questo fa sì che si possano avere appuntamenti con più facilità, avere magari anche una segreteria. In Italia, invece, mi facevo anche le fotocopie. Le persone sono più aperte e ascoltano, in Italia ad esempio si è spesso più diffidenti e si tende ad ascoltare più i “consigli” e a guardare alcuni aspetti come il fatto che sei giovane o donna. I francesi sono più avanti, sono abituati. E poi importante è la meritocrazia: se sei bravo e volenteroso in Francia le strade si aprono con maggiore facilità, in Italia, purtroppo, si deve sgomitare di più. Non sempre il valore è riconosciuto!
- Quanto hanno influito le sue radici?
Tantissimo. Mi hanno formata nel carattere che metto nella mia professione. Quando vieni da un paesino piccolo hai una visione totale: conosci la città perché ci hai studiato ma la differenza è che conosci anche l’approccio più genuino della vita. E’ una cosa che si radica nel tempo. Nel rapporto con i pazienti, ad esempio, ho avuto modo di sperimentare questo aspetto: Parigi è multietnica e multireligiosa: in alcune culture rivivo gli atteggiamenti di mia nonna. Molti ti portano il regalino, ti danno la pacca sulla spalla, hanno gesti genuini e questo mi ricorda l’Italia del Sud: io che ci ho vissuto recepisco tutti questi atteggiamenti. C’è un senso di famiglia, di appartenenza, di comunità che mi porto dietro anche nell’approccio con le persone. Ai miei colleghi faccio sempre vedere gli scatti di San Pietro al Tanagro: alberi di frutto, le galline, i gatti, il mio papà. Ho sempre piacere far vedere il mio paesino. Non è facile spiegarlo a chi non l’ha vissuto. Loro lo vedono come un piccolo mondo antico, molto romanzato.
- Sente di voler dare un consiglio ad un giovane che vuole intraprendere la carriera medica?
Sono studi lunghi, c’è tanta gavetta. L’impegno che ci metti non è sempre riconosciuto, però resta uno dei pochi lavori in cui c’è al centro l’umano. Non curi solo la malattia, ma la persona. In un mondo legato alle tecnologie, il nostro mestiere ci fa rimanere legati alla parte umana. Quando tiro le somme a fine giornata mi sento bene perché ho aiutato il prossimo, e questa è una cosa che non ha prezzo. Mi dà soddisfazione! Sento di dire che prima o poi si è ripagati di qualcosa in più, che non ha prezzo, e che nobilita il nostro animo. In conclusione voglio dire che nella vita puoi fare ciò che vuoi, basta che lo decidi tu. Lo studio ti permette di decidere per te stesso, senza dipendere.