Lettera aperta di Fabio Cestaro, studente della 5^B Liceo delle Scienze Applicate Istituto d’Istruzione Superiore “Pomponio Leto” Teggiano
D’un tratto è passato un anno. Senza rendercene conto. 365 giorni volati in un battito di ciglia. Ricordo quando giravano le prime notizie sulla diffusione di un virus sconosciuto e apparentemente innocuo in una cittadina cinese: Wuhan. Tutti, me compreso, ci sentivamo distanti, al sicuro, in una sorta di bolla di sapone che ci proteggeva da tutto ciò che ci circondava. Ignari di tutto quello che ci sarebbe capitato e di tutto quello che continua a capitarci. Basta un nonnulla e la nostra quotidianità viene sconvolta, calpestata e siamo costretti a doverci adattare ad una situazione che ci riporta in un’atmosfera quasi surreale. Mascherine, guanti, igienizzante, distanze diventano una cosa normale. Dispositivi e abitudini dalle quali difficilmente ci staccheremo (se prima in ogni giubbino avevo un pacco di fazzoletti ora porto con me una mascherina di riserva). Ci porteremo dietro la mania di lavare le mani, le paranoie degli spazi stretti e affollati, la paura di avere un contatto fisico troppo ravvicinato. E ahimè ci porteremo dietro anche un concetto per lo più psicologico che ci spingerá a guardare il prossimo come un nemico. Come un untore, qualcuno che può compromettere la nostra salute. Questo virus ha provocato molti danni, e ne danno testimonianza le migliaia e migliaia di persone che hanno perso la battaglia più importante della loro vita. Le persone che hanno perso i propri cari sentendosi inutili perché non potevano aiutarli in nessun modo neanche con un semplice sorriso o una parola di conforto. Coloro che fortunatamente ce l’hanno fatta, ma che porteranno per sempre un fardello: i ricordi che vorrebbero cancellare, le settimane da incubo, quel senso di impotenza che ti fa sentire così fragile dinanzi alla vastità del mondo. Un giorno potremmo raccontare queste esperienze ai nostri figli, ai nostri nipoti e finiremo sui libri di storia. Noi studiamo la seconda guerra mondiale, loro studieranno una pandemia mondiale in un anno che di bello non ci ha lasciato proprio niente. Siamo stati protagonisti di un capitolo molto buio della nostra storia, addirittura il capitolo più buio dal dopoguerra sino ad oggi. La nostra vita è cambiata radicalmente e con essa la nostra quotidianità. Abbiamo passato mesi bui, vivevamo rintanati in casa sperando in una luce in fondo ad un tunnel che sembrava infinito. I giorni sembravano anni, le settimane decenni e i mesi secoli. Una cosa ci spingeva e ci spinge ad andare avanti: la speranza. È proprio vero che la speranza è l’ultima a morire.
Al mattino quando mi sveglio spero che tutto questo sia un sogno, e quando mi rendo conto che non lo è continuo a sperare (o a dormire!). Prima speravo in un vaccino che ora è arrivato. Ora spero di tornare alla normalità. Di continuare a prendere a calci un pallone, di ricominciare ad andare a ballare (anche se non penso ci riuscirò subito), di vedere i miei amici e stringerli così forte da fargli mancare il fiato, di andare in un centro commerciale e soprattutto di ritornare a scuola (potrei scrivere un ‘enciclopedia per tutte le cose che mi mancano). Quest’ultima l’ho sempre vista come un carcere, dal quale vieni rilasciato il giorno della maturità. Sembrerà strano, ma mi manca. Diavolo se mi manca. Non la vedo più come un luogo di reclusione, ma come un’isola felice dove ho trascorso gli anni più belli della mia vita. Sono stato sempre un ragazzo dall’animo ribelle, un anarchico, contrario ad ogni forma di regola. Ho sempre odiato la scuola. Ma in questo periodo (ormai quasi un anno) mi è mancato ogni singolo minuto che ho trascorso tra quelle quattro mura e al di fuori di esse.
È proprio vero che senti la mancanza di qualcosa o qualcuno solo quando ti viene portato via. Ho cominciato a leggere, a scrivere ed ho scoperto che mi piace. Questo periodo mi ha aperto gli occhi, mi ha aiutato a conoscere me stesso. Ho avuto molto tempo per pensare, per fare cose che non avrei nemmeno immaginato di fare (leggere un libro per esempio). A me non piace studiare. O meglio a me piace studiare le cose che si avvicinano ai miei interessi. Le cose che mi affascinano. Non provo interesse nel risolvere un’equazione, lo provo studiando il pensiero di grandi autori, di persone che cercano di trasmetterti qualcosa per semplificarti quel lungo e tortuoso cammino chiamato vita. Non mi manca la scuola, mi manca quello che la scuola insegna. Mi mancano i miei compagni con i quali ne ho passate tante, troppe. Mi mancano le litigate con i prof. per colpa della mia testa di cavolo. Mi mancano le urla di mamma quando mi sveglio tardi e sto per perdere il pullman. Mi mancano le corse dietro quel pullman, le prese in giro all’autista. Mi manca quella faccia da cadavere che ho quando la sera prima faccio tardi e il giorno dopo la prof. spiega Dante. Mi manca quella mezz’ora d’aria prima di entrare a scuola. Mi manca persino il freddo del mattino che ti trapassa le ossa. Le assemblee fatte per sensibilizzare noi studenti a combattere le piaghe della vetusta mentalità della società odierna. Mi manca lo zaino senza libri, ma con una scorta di cibo che mi aiuta ad affrontare una giornata di scuola. I compiti scopiazzati per non prendere quell’impreparato che rischia di compromettere quelle interrogazioni per le quali hai buttato il sangue. Mi manca studiare all’ultimo minuto prima di un’ interrogazione. Le lunghe liste per il bar, il corridoio dove gli studenti si incontrano con gli amici per raccontare quanto possono essere pesanti due ore di matematica. Il rapporto con i compagni di classe che sono sempre al tuo fianco e che alla fine del percorso saranno diventati dei fratelli o sorelle. Le discussioni in classe anche per cose futili. Le grida che mi rimbombano in testa per qualcosa che ho fatto o che non ho fatto. Mi manca marinare le lezioni per saltare interrogazioni pesanti, giornate noiose o solo per passare del tempo in più con i miei compagni. Mi manca la campanella alla fine della giornata, musica per le orecchie. Sei soddisfatto di te stesso perché “per oggi ho fatto il mio dovere“. Sapendo che il giorno dopo ti siederai di nuovo in mezzo a quei banchi aspettando una campanella che sembra non suonare mai. Mi manca la campanella dell’ultimo giorno di scuola che dá inizio all’estate, e la campanella di settembre che senza renderti conto ti fa capire che la tua esperienza tra i banchi diventa sempre più corta, anno dopo anno. Le gite, le notti in albergo scappando dai professori che impongono il coprifuoco. L’ansia prima delle interrogazioni, le giornate passate davanti allo specchio per cercare di farti entrare in testa un argomento che non riesci a capire. I messaggi sul gruppo di classe (non sempre costruttivi), ma che ti permettono di parlare con i tuoi compagni anche se abitano a decine di chilometri da te.
Quest’anno è il mio ultimo anno di superiori. Speravo in qualcosa di migliore. E invece mi ritrovo ogni mattina con la faccia assonnata a dover accendere un computer e guardare i miei compagni da uno schermo. Senza la battuta che accompagna il buongiorno, senza quella estenuante camminata prima di entrare a scuola con la nebbia che non ti fa vedere niente lontano dal perimetro del tuo naso. Non ci sono altre soluzioni possibili, lo so. È come se mi stessero togliendo la felicità. È tutto giusto da un punto di vista costituzionale, legale ed anche morale. Però il bambino che è in me vuole rivivere queste emozioni per l’ultima volta. Prima di diventare grande, di fare la barba bianca e di dover affrontare questioni alle quali oggi non dò nessun peso. Questi dispositivi elettronici ci rendono schiavi, creano dipendenza. Io non ho questi problemi perché a stento riesco a starci la mattina per seguire quelle faticose 6 ore di lezione. Però ci sono persone e ragazzi che sostituiscono il rapporto umano con delle scatolette elettroniche prive di sentimenti. Delle macchine progettate per eseguire degli ordini. Che non sbagliano mai, che non sanno cosa significa prendere un ceffone perché hai fatto un errore. Sbattere con la testa contro il muro, ed imparare a rialzarti una volta caduto. I bambini di oggi crescono con la convinzione che la felicità è rappresentata dall’ultimo modello di un cellulare o di un computer. Non sanno cosa vuol dire buttarsi con la testa nel fango e aver paura di tornare a casa per non prendere le botte. Per questi aspetti mi rifiuto di credere a quelle persone che ritengono tutto ciò un cambiamento. Gli esseri umani non sono progettati come i robot. Le persone hanno bisogno di interagire tra di loro, del confronto e perché no anche dei rimproveri. Uno schermo di un computer non può sostituire la bellezza di un’aula di scuola, anche se é vecchia, arcaica. Le persone si formano in base alle esperienze che vivono, in base agli errori e ai successi che conseguono nella loro vita.
La scuola insegna anche questo. Ti prepara alla vita. Ti insegna a cadere e ti spiana la strada per ripartire. Non ho ricordi felici della mia esperienza con la DAD. Al contrario i ricordi più belli della mia vita sono racchiusi tra quattro mura, nelle classi che si cambiano ogni anno. E sono questi i ricordi che rimarranno indelebili nella mia mente. Mi rifiuto di raccontare ai miei figli il mio percorso scolastico in DAD. Non so se quest’anno torneremo a scuola o no. Me lo auguro. So per certo però che quando racconterò a qualcuno il mio percorso scolastico non parlerò della DAD. Parleró e racconterò tutte le mie avventure e sono sicuro che non riuscirò a trattenere le lacrime.
– Fabio Cestaro –