Il termine Brexit si riferisce al referendum che il 26 giugno 2016 ha chiamato il popolo britannico ad esprimersi sulla volontà di restare o meno nell’Unione Europea e che ha decretato la vittoria del fronte favorevole all’uscita (c.d. leave) con il 52% dei voti, sancendo una chiusura definitiva dell’Isola Britannica verso l’istituzione europea.
La Gran Bretagna, euro o non euro, è uno Stato importante per l’Europa. D’altro canto, far parte dell’UE ha permesso alla Gran Bretagna di non rimanere isolata rispetto ad importanti decisioni di carattere economico e geopolitico. La vittoria del leave contro il remain ha cambiato del tutto questa situazione con le popolazioni di Inghilterra, Scozia, Galles ed Irlanda del Nord considerate extra-comunitarie una volta che l’uscita sarà ratificata dall’Unione Europea.
La messa in pratica della volontà dei cittadini britannici non è immediata. Sono necessari, infatti, circa 2 anni per negoziare il nuovo status, come previsto dall’Articolo 50 del Trattato UE.
Theresa May, primo ministro britannico, alla testa di un governo fragile e con una maggioranza frammentata, con un emendamento alla Withdrawal Bill, la legge quadro sul divorzio tra UE e GB, ha fissato per venerdì 29 marzo la data dell’uscita. La stessa May, lo scorso 25 novembre, ha siglato un accordo con i partner europei per una uscita controllata (c.d. soft Brexit) che però è miseramente naufragato oltremanica nella sconfitta alla Camera dei Comuni inglese (432 no contro 202 sì). Ostacolo alla ratifica dell’accordo è stata soprattutto la gestione del confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica di Irlanda (c.d. backstop). L’obiettivo è quello di salvaguardare l’integrità territoriale evitando di fissare – nel caso di uscita senza accordo (c.d. hard Brexit) – un confine fisico tra le due Irlande.
Il primo ministro britannico, in virtù dei recenti accadimenti, ha ufficializzato alla Camera dei Comuni la sua strategia politica dettagliata in tre appuntamenti chiave. Il primo, il prossimo 12 marzo, prevede il voto parlamentare sull’accordo siglato con i partner europei (recanti alcune modifiche sul futuro del confine tra le due Irlande) che, in caso di accoglimento, sancirebbe l’uscita soft della Gran Bretagna dall’UE entro la data del 29 marzo 2019. Nel caso di bocciatura dell’accordo, il secondo passo sarà il 13 marzo con il voto del Parlamento sull’ipotesi di rottura hard con l’UE, senza accordi diplomatici (c.d. no-deal), con una cesura totale dei legami giuridici, commerciali e politici tra i due blocchi. Infine, nel caso i deputati si esprimessero contro l’uscita senza accordo, il 14 marzo il Parlamento sarà chiamato a votare il rinvio del processo di uscita fissato per il 29 marzo 2019.
Allo stato dell’arte, tutte le strade sembrerebbero ancora percorribili. Certamente, da un lato, il rinvio potrebbe attenuare il rischio di uno strappo diplomatico ma, dall’altro, potrebbe costringere i cittadini britannici a votare i propri rappresentanti nelle prossime elezioni Europee 2019 in programma a maggio. Fatto questo paradossale. D’altro canto, non si può escludere del tutto l’incognita del no-deal come pure quella di una sostanziale retromarcia sulla Brexit. Citando un famoso titolo del Times, “Fog on the Channel, Continent Cut Off” (ovvero “Nebbia sulla Manica, il Continente è isolato”), che racconta molto il carattere degli inglesi, speriamo solo che la nebbia si diradi.
– Francesco Ingino – Ufficio Finanza Banca Monte Pruno –
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