A Paestum stanno rivelando grandi sorprese i lavori per riportare alla luce il santuario scoperto nel 2019 lungo le mura della città antica.
Uno scavo, anticipa all’ANSA la Direttrice del Parco archeologico Tiziana D’Angelo, che promette di “cambiare la storia conosciuta dell’antica Poseidonia“.
“Quello che oggi ci troviamo davanti è il momento in cui il santuario, per motivi ancora tutti da chiarire, viene abbandonato, tra la fine del II e l’inizio del I sec. a C“, premette D’Angelo in merito agli scavi avviati nel 2020, bloccati dalla pandemia e ripresi da qualche mese.
L’analisi delle decorazioni fittili ha permesso di datare la fondazione del santuario nel primo quarto del V secolo a C., quando nella colonia greca erano già stati costruiti alcuni dei più importanti edifici monumentali arrivati fino a noi: il Tempio di Hera, edificato tra il 560 e il 520 a.C. e quello di Atena, che si fa risalire al 500 a.C. Il Tempio di Nettuno venne completato invece un po’ più tardi, nel 460 a.C., dopo una lunga gestazione.
Di dimensioni molto contenute – misura 15,60 metri per 7,50 – con 4 colonne sul fronte e 7 sui fianchi, il tempietto è come gli altri in stile dorico, ma si distingue per la purezza delle forme.
“E’ il più piccolo tempio periptero dorico che conosciamo prima dell’età ellenistica, il primo edificio che a Paestum esprime pienamente il canone dorico”, spiega all’Ansa Gabriel Zuchtriegel, l’ex direttore di Paestum oggi alla guida di Pompei che ha appena dato alle stampe un corposo studio sull’architettura dorica.
“Quasi un modello in piccolo del grande tempio di Nettuno, che allora appunto doveva essere in costruzione, una sorta di missing link tra il VI e il V secolo a.C.”, aggiunge il Direttore.
Il ritrovamento è dunque molto importante, perché dimostra l’autonomia artistica e culturale della comunità e sconfessa chi ha sempre creduto che nelle colonie ci si limitasse a copiare le produzioni della madrepatria. Infatti, su alcuni dei numerosissimi ex voto rinvenuti, precisamente su una delle statuette col delfino, è apposta la firma degli Avili, una famiglia di ceramisti di origine laziale, nota anche a Delo, la cui presenza a Paestum non era mai stata documentata.
Anche l’ubicazione del santuario è particolarissima: costruito nella città, ma lontano dal centro e dagli altri templi, giusto a ridosso delle mura, vicinissimo al mare, sul quale praticamente si affacciava, quindi le navi che passavano se lo trovavano di fronte.
Gli oggetti ritrovati nello spazio che separa il fronte dell’edificio dall’altare sono statuette in terracotta con i volti degli offerenti o quelli delle divinità, addirittura 15 quelle con il piccolo eros a cavallo del delfino, templi e altari in miniatura. Piccoli capolavori di artigianato che si aggiungono alle sette teste di toro ritrovate intorno all’altare, forse “oggetti di scena” a disposizione di chi amministrava il culto e che sembrano essere stati poggiati in terra con devozione, “come in un rito di chiusura“, messo in atto quando il santuario, che pure continuò ad essere frequentato anche in epoca lucana e poi dal 273 a.C., con l’arrivo dei romani, cadde in disuso.