E’ giunta alla sua undicesima edizione la Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata ai disturbi del comportamento alimentare (DCA). La ricorrenza, celebrata ogni 15 marzo, è una riflessione sulla problematica dei disturbi alimentari che consistono in una modalità di assunzione del cibo che compromette lo stato di salute fisica o il funzionamento psicosociale di una persona. Ne abbiamo parlato con Aurora Caporossi, fondatrice e presidente dell’Associazione no profit Animenta. Aurora ha 24 anni ed è stata nominata da Forbes tra gli under 30 più influenti d’Italia del 2022 proprio per essersi dedicata al sociale con una tematica così importante. Inoltre, fa parte della rete di giovani changemaker di GenC (Generazione Changemaker, giovani tra i 18 e i 25 anni che si distinguono per le loro iniziative).
- Di cosa si occupa Animenta e in che maniera aiutate le persone che si rivolgono a voi?
Animenta si occupa di fare attività di prevenzione, sensibilizzazione e informazione nell’ambito dei disturbi del comportamento alimentare. Quando l’associazione è nata abbiamo deciso, attraverso tutte le attività che ogni giorno mettiamo in campo, di rispondere a una domanda: cosa significa soffrire di disturbi del comportamento alimentare e perché tante persone si ammalano di queste malattie? Per farlo ho pensato che il modo migliore fosse raccontare storie e così è nato il blog Animenta, poi è diventato una pagina Instagram, infine il 20 gennaio di un anno fa abbiamo deciso di fondare una vera e propria associazione. Nasce per dare agli altri ciò che a me e alla mia famiglia è mancato a partire dall’ascolto e dall’accoglienza. Quando mia madre ha iniziato a capire che avevo dei problemi con il cibo e mi ha portata a fare le prime visite le dicevano che in realtà io stavo bene, che era lei la matta, che vedeva fantasmi dove non c’erano e questo solo perché non ero sottopeso: per loro era l’adolescenza. Animenta vuole dare un posto sicuro ai genitori, ai fratelli, ai partners e alle stesse persone che soffrono di queste malattie. Vogliamo che le persone nel momento del bisogno possano parlare direttamente con i medici perché il dialogo tra il clinico e la storia con un utente esperto è fondamentale per capire in che direzione andare con le terapie. Noi in associazione diciamo sempre “non siamo una diagnosi, siamo una storia” perché le diagnosi ci servono assolutamente per dare le coordinate ma non dobbiamo mai lasciare che la malattia ci identifichi e ci definisca.
- In che modo raccontare le storie può aiutare a superare i DCA?
La storia è una forma di racconto che non solo dà speranza ma fa sentire meno soli. In una storia di guarigione da un disturbo del comportamento alimentare si legge anche la possibilità di guarire e soprattutto, le storie, ci hanno permesso di rappresentare tutte le persone che possono ammalarsi. Quando ho cominciato a fare un po’ di ricerca sui DCA mi sono resa conto che, specialmente dai media generali, essi venivano associati a malattie femminili e nonostante i dati ci dicano che circa l’95,9% secondo i dati della SISDCA ad ammalarsi sono soprattutto le donne, dobbiamo ricordarci che i numeri possono “nascondere” le persone. I disturbi alimentari sono malattie molto democratiche, possono riguardare le donne ma anche gli uomini; possono riguardare la fascia d’età adolescenziale, certamente, ma anche le persone adulte. Abbiamo visto che se si dà la possibilità alle persone di raccontarsi e di sentirsi rappresentate, loro si confideranno. Abbiamo visto che le storie hanno una potenza enorme e che leggendole, nonostante la diversità che ogni storia ha, c’è un filo conduttore tra tutte: il senso di solitudine.
- A cosa è legato questo senso di solitudine di cui ci parli?
Ogni tanto mi domando come sia possibile che se siamo così tanti ad aver sofferto di queste malattie poi in fin dei conti ci sentiamo così soli, la risposta è che forse c’è stato sempre un tabù legato a queste malattie, spesso associate a dei capricci, “è tutta questione di volontà” si dice. I DCA sono delle malattie mentali che riguardano un’alterazione del comportamento alimentare e della percezione corporea. Sono espressioni di una sofferenza più profonda. Io ho sofferto di anoressia a 16 anni e ricordo che il tutto era associato al voler fare la modella: io nella mia vita non ho mai voluto fare la modella. La nascita della mia malattia derivava da tutt’altro, i DCA sono malattie multifattoriali e se dovessi spiegare il senso della mia malattia dovremmo parlarne per ore. Il concetto che voglio trasmettere è che in realtà non bisogna pensare ai disturbi del comportamento alimentare come delle patologie legate all’estetica soltanto perché riguardano il corpo. Per spiegare meglio questo concetto ai ragazzi, quando facciamo attività di prevenzione e sensibilizzazione nelle scuole, faccio sempre l’esempio del palcoscenico. Il corpo è un po’ come lo spettacolo sul palcoscenico: è quello che noi vediamo, è la prima manifestazione di noi stessi all’altro. Ma il modo in cui un corpo è, il modo in cui si comporta, come in questo caso col cibo, in realtà deriva da tutto ciò che c’è dietro le quinte ed è lì che nascono i disturbi alimentari che non riguardano solo il corpo, solo il peso o solo il cibo, tante volte i DCA restano nell’invisibile.
- Quando parliamo di DCA le prime due malattie che vengono in mente sono anoressia e bulimia.
Sì, in realtà esistono tanti altri DCA come il binge eating disturb (disturbo da alimentazione incontrollata) oppure tutti gli altri disturbi non altrimenti specificati, come la pica (mangiare oggetti non commestibili), l’arfid (ipocondria verso il cibo) tipico dei bambini. Ci sono tante tipologie di disturbi alimentari e per essere considerati tali hanno bisogno di una diagnosi. Esistono dei “red flags”, cioè dei campanelli d’allarme che si possono individuare se una persona comincia a dare dei segnali, anche in famiglia. Tra i campanelli d’allarme c’è il cambiamento d’umore perché la restrizione porta ad essere apatici quasi rabbiosi. Ci tengo a dire che le immagini che noi abbiamo proiettate ogni giorno nella nostra mente dal mondo esterno, dai social media, dagli amici, sono frutto della cultura all’interno della quale viviamo e i disturbi alimentari riguardano tanto la socialità e le relazioni con l’altro. Va di moda da diversi anni il cosiddetto “mangiar sano”, allora la domanda che ho posto per quella che è che la mia esperienza personale è: cosa può essere davvero considerato sano se mi danneggia a livello fisico e mentale? E’ sano ciò che lo è per me. Siamo portati a seguire le mode anche per le scelte alimentari, ma l’alimentazione è una scienza non è un’opinione. I social media sono uno strumento potentissimo in modo positivo ma anche in modo negativo. Ci affidiamo a dei personaggi, tutto quello che vediamo all’esterno lo percepiamo, lo introiettiamo e lo reinterpretiamo. E’ importante capire cosa ci fa bene e cosa no e che abbiamo il potere di scegliere, spesso lo dimentichiamo.
- Il medico di base è la persona a cui ci si rivolge per primi in genere. Ha un ruolo in tutto questo?
Assolutamente sì. E’ bene affidarsi al medico di base se ha le giuste competenze. La prima cosa da fare se non le si hanno è un passo indietro perché altrimenti si fanno dei danni importanti. Bisogna rimandare alle Asl, ai centri specializzati, agli psicologi, psicoterapeuti o psichiatri esperti in disturbi alimentari. Assolutamente non lasciare la famiglia: se un medico di fiducia pensa che una persona possa soffrire di un disturbo alimentare che sia un bambino o una bambina, un ragazzo o una ragazza, e questo è fondamentale dirlo perché non sono solo le donne a soffrire di DCA, bisogna indirizzarli nel modo giusto. I primi stereotipi legati alle malattie avvengono proprio nelle sale di cura e questo è uno dei più grandi problemi che stiamo cercando di affrontare, anche attraverso l’informazione. Un ragazzo che ha un rapporto complesso con il cibo non è adolescenza e non lo sta facendo per attenzioni. Cerchiamo di capire come sta la persona e soprattutto, se si tratta di bambini piccoli evitiamo questa troppa attenzione al peso e alle misure.
- Per accogliere il paziente in Pronto Soccorso da qualche anno esiste il Codice Lilla.
Il Codice Lilla è stato creato da Simona Corridori e Mariella Falsini perché accade spesso che una patologia come il DCA venga fraintesa e senza l’evidenza fisica si dice che la persona non è malata. Dunque serve per accogliere il paziente nel giusto modo e per consentirgli il giusto percorso terapeutico. Il corpo non sempre parla; c’è l’anoressia atipica che è legata solamente allo stigma del peso. Parliamo di una persona con pensieri disfunzionali, tipici di chi soffre di anoressia, che assume comportamenti restrittivi che sul corpo non hanno alcuna evidenza. Ciò non significa che quella persona stia bene. Quando si parla di stigmi alimentari la frase che ho sentito più spesso è stata “è tutto nella tua mente”. Può anche essere soltanto nella mente, ma per chi soffre è una condizione reale e come tale merita di avere la sua dignità. Bisogna accettare quella malattia e bisogna soprattutto curarla.
- Negli ultimi anni la fascia d’età dei ragazzi a cui viene diagnosticato un DCA si è abbassata?
Sì, soprattutto durante la fase del lockdown si è visto un abbassamento dell’insorgenza dei disturbi alimentari parlando di età. C’è stata proprio una ricerca che evidenzia un’insorgenza dei disturbi alimentari in età precoce. La fascia di età si sta pian piano abbassando. I numeri ci dicono dove c’è in prevalenza un disturbo alimentare; spesso anche in età adulta insorgono i DCA, in persone in cui non erano mai stati diagnosticati. Nascono con ciò che è più comune: il cibo. Ci si insidiano dentro, mi piace pensare agli alberi secolari per spiegarlo, con queste radici enormi. I DCA sono proprio così, non sono malattie croniche, possono cronicizzarsi quando diventa un’abitudine pensare che sia normale avere una relazione così (malsana) con il cibo. Il tempo è fondamentale: tanto prima mi rendo conto che c’è un problema tanto prima impedisco che queste radici si prendano tutta la persona.
- Che ruolo ha la famiglia?
Anche il modo in cui la famiglia si comporta nei confronti del cibo può avere un’influenza su quelle che sono le nostre abitudini alimentari. Spesso appena un bambino è sovrappeso o troppo magro si va subito dal medico. Consoliamo i bambini, accogliamoli e non forziamoli a mangiare: forse c’è qualcosa di più grande nel loro rapporto con il cibo, non è un semplice capriccio. La famiglia non ha una colpa: spesso hanno il dito puntato contro. Non è colpa dei genitori, nei disturbi alimentari non c’è una colpa. Sono malattie e nessuno sceglie di ammalarsi.
- In che modo ci si può rivolgere ai ragazzi per aiutarli a star bene con il loro corpo?
Con Animenta facciamo lezione ai ragazzi soprattutto del liceo, ma in realtà andrebbe fatta anche agli insegnanti. Tra i ragazzi c’è tanta voglia di sapere, di conoscere e soprattutto di parlare. Noi facciamo tanti tipi di percorsi diversi che parlano di immagine corporea, educazione alimentare insieme a dei professionisti esperti in disturbi alimentari. Le nostre sono delle chiacchierate, sono dei progetti in cui ragazzi si mettono al centro, parlano, si confrontano e si confidano. E questa è la cosa importante. L’idea è di parlare con i ragazzi e soprattutto ascoltarli. Io invito sempre a parlare e a non farsi zittire da nessuno. Se c’è qualcosa che non va se ne parla, con i giusti modi e soprattutto senza vergognarsi mai della propria storia. I ragazzi vanno ascoltati e mi piacerebbe che questo messaggio venga capito soprattutto dagli insegnanti. I ragazzi vanno educati e con l’ascolto si può capire se c’è qualcosa che non va; tramite questo bisogna dare ai ragazzi una “cassetta degli attrezzi” che li aiuti ad affrontare i problemi nel momento di bisogno. Al di là delle scuole abbiamo anche un programma di volontariato. Abbiamo volontari in tutta Italia, persone e professionisti che fanno attività insieme a noi. Scrivono le storie e scrivono lettere di supporto. L’idea è quella di avere una presenza di Animenta a livello locale in ogni regione. Cerchiamo di dare supporto alle famiglie soprattutto attraverso la pagina Instagram; spesso chiacchieriamo con loro perché vogliono il supporto da chi l’esperienza l’ha già vissuta, oltre al parere medico. Organizziamo poi eventi con professionisti per sensibilizzare e prevenire. Abbiamo organizzato cene aperte su Meet durante la pandemia, per affrontare insieme il momento dei pasti. Abbiamo creato con Ambra Angiolini un progetto teatrale chiamato “Lettera al corpo”, un’attività che abbiamo chiamato “anima tonica” perché lo scopo era fortificare la nostra anima.
- Cosa bisogna assolutamente non fare con una persona che soffre di DCA?
Specifico che non esiste un libretto delle istruzioni. Ciò che magari ha funzionato per me può nonfunzionare per un’altra persona. Questo non significa che esista una scelta giusta e una sbagliata semplicemente siamo persone e come tali siamo diverse. Sicuramente quando ci troviamo accanto alla persona che soffre di questa malattia, spostiamo l’attenzione dal cibo e dal corpo. Cerchiamo di capire il perché, magari chiedendo “come stai”. Non è dicendo a una persona “è solo un piatto di pasta” che questa situazione si sgretola. Il dolore ha bisogno di essere accompagnato è importante creare una zona di comfort in cui la persona si senta accolta. Lasciate la porta socchiusa, donate una presenza che sia “in punta di piedi”. Ai genitori consiglio di leggere “Il peso dell’amore” del dottor Mendolicchio.
- I DCA influenzano le relazioni sociali ed in particolar modo quelle sentimentali?
I disturbi alimentari influenzano le relazioni sentimentali e qualsiasi tipo di relazione. Spesso viene intaccata la libido, la sfera più intima che si possa avere con il proprio partner. Si ha difficoltà con questo corpo così ingombrante che non si riesce ad avere intimità con l’altro e con sé stessi. Anche con i vestiti, spesso più grandi, si perde il rapporto con l’altro, il toccare mette a disagio. Si prova un grande senso di vergogna, ci si vuole nascondere e non è un piacere condividere il corpo con l’altro. Anche qui, informarsi il più possibile. Accompagnare la persona ad andare dallo psicologo, ad esempio, restando sempre nel proprio spazio ma almeno si sentirà meno sola. Soprattutto si sentirà meno malata. E’ importante fare attenzione alle parole che si dicono e so che è difficile. Quando la parte intima di una coppia viene meno, non è facile recuperarla, bisogna provare un grande senso d’amore.
- E’ una dieta a curare i DCA?
Assolutamente no. Intanto spesso si pensa che per i disturbi alimentari basti un nutrizionista. E’ importante avere un’équipe multidisciplinare, quindi psicologo, psicoterapeuta, un dietista e anche un educatore. Lo psicologo è necessario, parliamo di un disturbo tra la mente e il cibo. Ci sono centri specializzati in tutta Italia. Sugli iter c’è ancora tanta confusione. Le liste di attesa per la sanità pubblica sono infinite, esistono anche specialisti privati però. L’importante è rivolgersi ad un’équipe specializzata che dialoghi tra loro. Possono coesistere anche DCA con altri disturbi comportamentali e ci riferiamo sicuramente ad uno stadio della malattia più grave (autolesionismo, abuso di alcol, ad esempio). In alcuni casi il DCA è una risposta ad un altro problema. Esistono degli specialisti anche per questo.
- In conclusione, qual è il messaggio che vorresti rivolgere a chi ci sta leggendo?
Potrei racchiudere tutto in una metafora che mi ha detto mia mamma, che poi si ricollega al motto di Animenta. Quando soffrivo di anoressia avevo perso la voglia di vivere poi però sono tornata, “come il vento”. E vorrei che questo lo capissero i genitori, gli insegnati, i partners: solo perché una persona è momentaneamente assente non vuol dire che non tornerà, ha soltanto bisogno del tempo necessario per ritrovarsi. La persona torna ricostruita, diversa e la cosa importante è ricominciare un nuovo capitolo a prescindere da quello che è successo. Consapevoli, senza negare la malattia.