Come si svolgevano anticamente nel Vallo gli scambi commerciali e le vendite? Sì, c’erano durante l’anno i mercati locali, come la fiera del Tomusso a Padula e quella di Siglia (oggi Silla) a Diano (Teggiano), che si svolgevano ad agosto. Ma c’era poi un capillare flusso di vendite che aveva luogo giornalmente tutto l’anno (tranne nei mesi invernali, quando le strade erano impraticabili per la neve) e che dal Vallo si irradiava in varie direzioni, nei paesi del Cilento e in quelli del Potentino. Per vendere la merce nei paesi bisognava partire la sera del giorno prima. Di qui un via vai notturno per monti e per valli, di contadini e pastori coi loro mezzi di locomozione, e talvolta a piedi, per raggiungere il posto di vendita nelle prime ore del mattino. I resoconti, veramente suggestivi, di questi viaggi notturni si possono leggere nelle interviste agli anziani protagonisti fatte dall’amico professore Colitti, cultore di storia orale, e pubblicate in diversi libri, tutti reperibili presso la Biblioteca Comunale di Sala Consilina.
Questo facevano le classi più umili, contadini e pastori. Mentre costoro andavano a vendere, gli esponenti delle classi più agiate, i civili e gli ecclesiastici, andavano invece ad acquistare, alla grande Fiera di Salerno che si svolgeva a fine settembre, dei prodotti che non si trovavano nelle fiere locali del Vallo di Diano. Il sacerdote don Antonio La Maida, procuratore del monastero di San Benedetto di Diano, è inviato dalle Benedettine a fare acquisti alla Fiera di Salerno, e perciò parte in calesse con due collaboratori la domenica del 25 settembre 1785. Nella settimana di permanenza a Salerno egli compra per conto delle monache i seguenti articoli: 2 barili di tonno ed un altro di acciughe, 75 chili di riso, 20 chili di zucchero, 4 chili di mandorle, 2 chili di pepe, 4 libbre di cedro e 5 once di cannella, e alcuni “sportoni di maccaroni, gnocchi ed altra sorte di pasta”; ed ancora: una risma di carta di Genova, 77 libbre di ceri (candele e torcette), 1 chilo d’incenso, 1 libbra di bambagia vergine, chiodi di varie dimensioni, 2 mestoli forati, 3 “cocchiarelle”, 1 bacile di stagno, mezza libbra d’Ippocanda (farmaco) e 2 libbre di sale inglese. Il tutto spendendo la bella somma di 75 ducati e 63 grani.
Infine, sappiamo anche che le stesse monache di San Benedetto di Diano acquistavano tutti i mesi (tranne nel periodo giugno-settembre) pesce proveniente dal golfo di Policastro, tra cui “alici e pesce spada”. Ma c’è anche la notizia di una provvista di baccalà, “fatto venire dalla Marina dalla Signora Abbatessa”.
– Arturo Didier –
FONTE: A. DIDIER, “Un anno di gestione economica del monastero di San Benedetto di Diano, 1785-1786”,
in “Rassegna Storica Salernitana”, n. 57 (giugno 2012), pp. 209-230