Non a caso nei migliori dizionari della lingua italiana (ad esempio, quello a cura di Tullio De Mauro) la parola “lucanica” risulta come sinonimo di salsiccia e il riferimento al nostro territorio è diretto e calzante, poiché tale comprensorio costituiva una parte preponderante della Lucania, regione che, com’è noto, anticamente si estendeva da Paestum a Potenza, passando appunto per il Vallo di Diano. Sta di fatto che tutte le antiche descrizioni del Vallo parlano di una consistente produzione locale di salumi, particolarmente di salsicce e soppressate. Il perché di questa produzione era dovuto alla vocazione essenzialmente pastorale della valle, sulle cui colline salivano e scendevano giornalmente colonne di animali bovini e caprini condotti al pascolo. L’agricoltura, invece, per il disordine idrogeologico imperante costantemente nella pianura, e per il clima rigido di gran parte dell’anno, era quasi inesistente.
Considerata l’importanza essenziale della pastorizia e dell’allevamento per l’economia locale, i Comuni regolavano queste settore redditizio emanando, di volta in volta, disposizioni e prescrizioni che venivano inserite negli statuti e capitoli della città. Ad esempio, a Diano [Teggiano] gli amministratori della città mettevano a disposizione dei cittadini che ne facevano richiesta un pezzo di terra comune per l’impianto di un allevamento bovino. E questa buona disponibilità di animali bovini favorì nel Vallo una notevole produzione di salsicce e soppressate, al punto che, come abbiamo visto, il prodotto si identificò con il nome della regione assumendo la definizione di “lucanica”.
Negli statuti municipali di Diano, risalenti alla seconda metà del Trecento e scritti in latino, viene stabilito che le salsicce poste in vendita devono essere genuine e ben lavorate: “Lucanicae, aut supersatae et farcimina sive salcitiae bene consectae venduntur”.
Le fonti storiche documentano il viaggio compiuto nei secoli da questa salsiccia valdianese. Ad esempio, questo prodotto locale arricchì la tavola imbandita per il sontuoso banchetto tenutosi, nel 1484, nel castello di Diano, per le nozze tra Giovanna, sorella del principe Antonello Sanseverino, e Luigi Gesualdo conte di Conza. Il numero dei convitati fu talmente elevato da richiedere il consumo di un numero rilevante di animali bovini e pecorini.
Venendo a tempi recenti, possiamo affermare che la salsiccia valdianese fu portata nel 2001 al papa Giovanni Paolo II da monsignor Francesco Pio Tamburrino, ex vescovo della diocesi di Teggiano-Policastro e in quel momento Segretario della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti.
Che dire di più? Purtroppo, nel giro degli ultimi decenni, tra tante cose venute meno con la modernizzazione del commercio, anche la produzione di salsicce e soppressate locali è diminuita notevolmente. Va scomparendo anche la tradizione secolare dell’ammazzamento del maiale allevato in casa, che dava luogo ad un giorno di festa in cui si invitavano parenti ed amici per il rito consueto di lavorazione delle carni, confezionando, tra l’altro salsicce e soppressate, fatte prevalentemente dalle donne, a cui seguiva un grande pranzo. Tanti anni fa ebbi il piacere di essere invitato anch’io ad una di queste manifestazioni tramandate dalla tradizione locale. A fine pranzo c’era anche il momento in cui, al suono dell’organetto e del tamburello, qualcuno si cimentava nel canto popolare a distesa e qualche coppia si esibiva nel ballo della tarantella.
“Tiempe belle ‘e na vota/tiempe belle addò state?”, dice una famosa canzone napoletana. E così si può dire anche delle tradizioni valdianesi, tra le quali c’è la suddetta “lucanica”, salsiccia medievale del nostro territorio.
– Arturo Didier –
FONTE: S. MACCHIAROLI, Diano e l’omonima sua Valle, Napoli 1868, p. 222.