Il 15 gennaio 1656 si riunisce urgentemente a Diano [Teggiano] il Consiglio Comunale per prendere visione del seguente ordine regio: formare un comitato di uomini autorevoli del paese, i quali giornalmente, a turno, devono esaminare chi entra e chi esce dalla città, dando ad ognuno l’autorizzazione a farlo attraverso un permesso scritto firmato da due deputati e dal cancelliere del Comune o Università (nel senso di universitas civium). Viene nominato a tal fine un comitato cittadino, di cui fanno parte i nobili Annibale D’Alitto professo in legge, il dottor Diego Colletti, il notaio Giovan Lorenzo Lotti e il tenente Giovan Battista Schifelli.
In ottemperanza a tale disposizione, ogni giorno, quando si presenta ad una delle due porte di Diano (quella della Pietà e quella dell’Annunziata) qualcuno che vuole entrare o uscire dal paese, uno dei guardiani di dette porte corre a chiamare il nobile che quel giorno è di turno e che ha il compito di rilasciare il suddetto permesso scritto.
Come si spiega questo insolito e severo controllo di chi entra o esce da Diano in questo momento particolare della storia della città? Si spiega con le condizioni generali del Regno di Napoli in un periodo storico di grande disordine politico, sociale ed economico, cioè quello subentrato alla rivoluzione del 1647-48, che fu una rivolta delle classi popolari contro il potere baronale, la famosa rivolta di Masaniello, che si diffuse da Napoli in tutto il Regno. Nella seconda metà del Seicento, com’è noto, tutto il Mezzogiorno è percorso da bande armate di malfattori e da viandanti affamati che cercano di procurarsi del cibo entrando nei centri abitati incustoditi. E questo non poteva non ripercuotersi anche a Diano, dove c’erano risorse economiche, famiglie di possidenti, possibilità di nutrirsi.
Ma il paese era difeso, come si vede, da una classe nobiliare di alto livello (benestanti e professionisti) preparata ad affrontare ogni esigenza portata da avventurieri e malintenzionati. Diano, nonostante la grave depressione economica che imperversava sul paese dalla fine del Cinquecento in poi, contava circa 800 abitanti (numero non esiguo per la demografia di quei tempi), per la maggior parte contadini e pastori dediti allo sfruttamento soprattutto della pastorizia, perché l’agricoltura era quasi inesistente a causa del disordine idrico delle terre del Vallo.
Il paese era feudo di don Carlo Calà, duca di Diano, grande personaggio, che era stato dapprima Reggente del Consiglio Collaterale e poi Presidente della Regia Camera, e che esercitava correttamente il suo dominio feudale attraverso la nomina di un suo governatore. Ma Diano godeva della sua autonomia amministrativa attraverso il suo Parlamento, che si riuniva con la formula: “A nome di Dio Onnipotente, della Beata Vergine Maria, del Beato Cono protettore ed in fedeltà al Signor Duca di Diano”. Questa fervente religiosità proveniva anche dal fatto che Diano aveva cinque monasteri, cinque chiese parrocchiali e il Seminario, strutture ecclesiastiche tutte insediate nel centro storico.
Purtroppo era in arrivo, nel Mezzogiorno e quindi anche a Diano, tra pochi mesi, quella terribile peste che avrebbe dimezzato la popolazione dell’Italia meridionale, mietendo numerose vittime anche a Diano. La ripresa economica e demografica giungerà soltanto dopo il 1734, con la rinascita del Regno di Napoli attuata dal Re Carlo III di Borbone.
– Arturo Didier –
FONTE: “I Parlamenti di Diano” (1652-1698), manoscritto, in Archivio Carrano di Teggiano