E’ entrato in vigore venerdì 3 aprile il decreto della Presidenza del Consiglio dei Ministri che permette di chiedere l’anticipo mensile del Trattamento di fine rapporto (Tfr) in busta paga. In questo modo chi vorrà potrà già farne richiesta, senza però poter ritornare sulla decisione presa fino al 30 giugno 2018. Una scelta da valutare bene, quindi, prendendo in esame pro e contro di questa nuova possibilità che arriva in un momento particolarmente critico dal punto di vista dei guadagni e dei redditi da lavoro.
Il decreto in vigore da pochi giorni è una norma “sperimentale“. Il Governo ne deciderà la proroga soltanto se sarà evidente un rilancio dei consumi e, di conseguenza, dell’economia.
Ma vediamo nello specifico di cosa si tratta e a chi si rivolge il decreto.
Tutti i lavoratori dipendenti italiani, con più di 6 anni di servizio, possono farsi versare in busta paga il Tfr, quelle quote del salario (6,9% della retribuzione lorda più 0,5% per alimentare un fondo di garanzia all’Inps) che, anno dopo anno, sono state accantonate per il momento della liquidazione. Ovviamente questa prerogativa, da cui restano esclusi i dipendenti pubblici (che invece del Tfr hanno diritto al Tfs – Trattamento di fine servizio), presenta vantaggi e svantaggi. Tra i primi rientra senz’altro il fatto che l’anticipo del Tfr provocherà un sicuro aumento di stipendio, anche se non eccessivo. Si calcola, ad esempio, che chi guadagna 1500 euro netti al mese si vedrà aggiungere in più sul salario circa 90 euro mensili. D’altro canto chi prenderà questa decisione dovrà poi vivere nella consapevolezza che la liquidazione a fine rapporto di lavoro sarà decisamente meno sostanziosa. Sempre prendendo ad esempio un lavoratore che percepisce 1500 euro netti al mese e si fa liquidare per 36 mesi il Tfr in busta paga, si calcola che questi perderà circa 6000 euro di liquidazione finale e circa 40 euro al mese di pensione integrativa.
La questione ha però anche altri due aspetti che potrebbero rientrare tra quelli negativi. Il primo è generato dal fatto che le piccole aziende (quelle con meno di 50 dipendenti) trattengono presso di sè le quote del Tfr, impegnandosi a versarle a fine rapporto. Questo accantonamento, nel tempo, finge da fondo per gestione ordinaria dell’impresa e, qualora il lavoratore scegliesse di riceverlo in busta paga mensilmente, l’imprenditore potrebbe vedere diminuita di molto la liquidità a sua disposizione. Per questo motivo è stato firmata dal Governo la convenzione con l’Abi per permettere alle piccole aziende di accedere a finanziamenti agevolati per farsi anticipare la liquidità necessaria per versare l’anticipo del Tfr.
Il secondo aspetto negativo riguarda invece la tassazione. Infatti gli aumenti di stipendio dovuti all’aggiunta del Tfr comporteranno il pagamento di maggiori tasse da parte del dipendente che ne usufruisce. Sempre prendendo ad esempio il lavoratore che guadagna 1500 euro, quest’ultimo si vedrà tassati gli aumenti del 27%, mentre lasciando il Tfr da parte potrebbe risparmiare circa 200 euro all’anno.
“Meglio l’uovo oggi o la gallina domani?“, quindi, sarà il quesito che da questo momento in avanti si porranno milioni di lavoratori dipendenti italiani. Quesito a cui probabilmente si risponderà lasciandosi condizionare dalla criticità finanziaria in cui versa la nazione.
– Chiara Di Miele –