La malattia oncologica di un bambino è sempre un momento di difficoltà, non solo per il piccolo, ma anche per la famiglia.
In questa ottica importante è il supporto dei reparti di Oncologia pediatrica: il loro impegno è in favore dei piccoli malati e delle loro famiglie, ed è costantemente incentrato nel segno della speranza.
Ma come si vive in un contesto così delicato e profondo? Con il professore Antonio Ruggiero, pioniere dell’oncologia pediatrica, originario di Sant’Angelo le Fratte e direttore del reparto di Oncologia pediatrica del Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma, abbiamo provato a raccontare quello che c’è dietro la normale vita di un reparto dedicato proprio ai bambini: l’impegno umano che vede in prima linea il personale sanitario, le associazioni e le famiglie.
- Professore, che tipo di reparto è quello di Oncologia pediatrica?
E’ un reparto molto particolare perché abbiamo a che fare con bambini affetti da patologie importanti. Parliamo di un posto che ospita bimbi di pochi mesi e giovani adulti con storie lunghe. Spesso parliamo di trattamenti, di alcuni mesi o che talvolta superano l’anno, che sono particolarmente impegnativi per i minori ma anche per le famiglie. Qui si evince poi un concetto di famiglia che non è soltanto dei genitori ma anche dei parenti più prossimi (zii, nonni, vicini di casa). Per ogni bambino malato di tumore si parla di circa 100 persone che vengono coinvolte nella sua gestione e conoscenza. Sono storie molto complesse dove l’obiettivo è ottenere la guarigione, che nella maggior parte dei casi si verifica. Purtroppo una quota non ha il risultato sperato.
- Qual è l’impegno del personale sanitario che opera in questo ambito?
L’impegno è costante da parte di medici, infermieri ed OSS. Sono patologie impegnative e quindi anche l’assistenza è costante nel tempo. Questo genere di reparto ha un’organizzazione un poco diversa dal punto di vista assistenziale rispetto ad altre aree della medicina. Per il tipo di paziente e per le complicanze occorre che siano messe in atto una serie di procedure che non compromettano il programma terapeutico di ogni bimbo.
- Perché ha deciso di lavorare in un ambito così particolare come quello dell’Oncologia pediatrica e cosa, secondo lei, non deve mancare ad un buon medico?
Un poco come tutte le cose: da una serie di circostanze ma anche per il mio interesse per le patologie pediatriche. Ho frequentato per un periodo questo reparto e da qui è nato maggiormente il mio interesse fino ad abbracciare completamente l’ambito. Penso che un buon medico debba avere piacere dell’attività clinica e di ricerca, costanza nel tenersi aggiornato e capacità comunicativa. Sono criteri generali ma che di fatto sono fondamentali per chi vuole svolgere l’attività medica.
- Che ruolo ha la comunicazione e com’è interloquire con i piccoli pazienti?
La comunicazione è decisamente differente ed è un aspetto importante perché condiziona il rapporto medico/paziente. Chiaramente abbiamo di fronte, alcune volte, bambini di pochi anni e questo già richiede un adeguamento delle modalità di approccio. In più, essendo minori, l’interlocuzione è anche con i genitori che devono esprimere anche il consenso al trattamento. E’ un processo molto complesso che mette in campo una serie di organizzazioni e procedure per comunicare in maniera chiara ed efficace. Occorre sottolineare che la comunicazione è fondamentale perché questi momenti non sono limitati alla fase della diagnosi ma a tutti quei momenti in cui viene rivalutata la malattia ed il modo in cui risponde la terapia.
- Professore, qualche dato. Quali sono i tumori pediatrici più frequenti e quali sono i numeri?
Le patologie sono le leucemie linfatiche acute e i tumori cerebrali. Sono circa il 40/45% dei tumori che abbiamo nell’età pediatrica. Per fortuna i tumori nei bambini sono fenomeni abbastanza rari, in Italia abbiamo mediamente 1500/1600 casi tra i primi mesi ed i 14 anni. Se introduciamo gli adolescenti, ovvero la fascia fino ai 18 anni, sommiamo altri 800/900 casi all’anno. I numeri di tumore nell’età adulta oscillano intorno ai 387mila casi all’anno. Parliamo quindi, di numeri ben diversi.
- Il suo è un ambito che espone spesso al dolore e alla sofferenza. E’ difficile la gestione dal punto di vista emotivo per il personale?
Difficile non essere coinvolti dalle esperienze di questi bambini. Chiaramente da una parte è inevitabile, dall’altra è necessario mantenere una certa cornice di professionalità perché permette di gestire in maniera serena le scelte terapeutiche. Il coinvolgimento riguarda tutte le figure assistenziali. Anche per questo sono previste una serie di iniziative che aiutano ad alleggerire lo stress in questo tipo di reparti.
- Negli anni ha vissuto le storie di tantissimi bambini. Cosa le è rimasto impresso?
Ogni bimbo ha una storia a sé però ciò che accomuna tutti è che molto spesso troviamo pazienti più grandi dell’età che hanno. Quindi spesso abbiamo piacevoli sorprese nel vedere le loro reazioni. Talvolta sostengono i genitori, capovolgendo i ruoli. Questo ci fa capire che il bambino ha risorse che noi non immaginiamo e che in queste situazioni vengono fuori in tutta la loro bellezza. Altre volte alcuni pazienti non esprimono disagi per non far preoccupare i genitori. Sono sorprendenti nello spirito di adattamento.
- Lei si è distinto anche nel campo della ricerca. Quanto è importante questo aspetto?
La ricerca è fondamentale perché ha permesso che circa l’80% dei bimbi affetti da tumori potesse guarire. Se guardiamo i dati di 40 anni fa, solo il 20% circa guariva. Le patologie oncologiche pediatriche sono rare e istologicamente diverse da quelle dell’adulto. Nel bambino, dicevamo, sono frequenti leucemie e tumori cerebrali mentre negli adulti parliamo di patologie al polmone, al colon, alla mammella. Tumori ben diversi, dunque. Diventa fondamentale, dunque, il ruolo di alcune istituzioni, come ad esempio la Fondazione di Oncologia Pediatrica del ‘Gemelli’ che mette a disposizione una serie di risorse economiche per ottenere risultati e migliorare le cure.
- Non solo cure e ricerca. Costante è anche l’impegno in alcuni progetti ludico-didattici.
E’ importantissimo. Parliamo di percorsi terapeutici lunghi che spesso richiedono ricoveri ravvicinati e frequenti. Va superato il concetto di cura: non è solo il miglior trattamento medico chirurgico ma l’insieme di quelle terapie che permettono di migliorare la qualità di vita dei pazienti. Diventa fondamentale cercare una serie di attività che vanno a migliorare la degenza in ospedale. Parliamo di laboratori di ceramica, di musica, attività sportive: tutto ciò può cambiare il concetto di ospedale nei piccoli degenti. Non più, dunque, un luogo di dolore ma un luogo di esperienze positive.
- Vuole lanciare un messaggio, in conclusione, per quelle famiglie che stanno vivendo un momento di difficoltà in uno di questi reparti?
La guarigione, come dicevo prima, non è un miraggio e questo ci permette di guardare al futuro con serenità e soprattutto speranza! La ricerca va avanti e i risultati sono utilizzabili e quindi anche per quel gruppo di bambini che oggi non ha elevate possibilità di guarigione possiamo guardare al futuro fiduciosi perché nei prossimi anni avremo nuove armi a disposizione per poter trattare tutti.