Sono definiti i “resistenti” al Covid. Si tratta di quei soggetti che, pur vivendo a stretto contatto con persone positive al Sars-COV-2, anche senza i dispositivi di protezione, non sviluppano l’infezione né gli anticorpi. Per capire cosa c’è alla base di questa “immunità naturale” il professor Giuseppe Novelli, Direttore del Laboratorio di Genetica Medica del Policlinico Tor Vergata di Roma, sta conducendo uno studio di rilievo internazionale in collaborazione con 250 laboratori mondiali coordinati dalla Rockfeller University di New York.
Il professor Novelli ci ha gentilmente concesso un’intervista per fare chiarezza su quanto finora è stato osservato in relazione alle persone “resistenti” al Covid.
- Professore, in cosa consiste nello specifico lo studio da lei condotto?
Quando scoppia una pandemia ci sono tre fattori da tenere sempre presenti: il patogeno, cioè il virus, l’ospite, in questo caso gli umani, e l’ambiente. Questi tre fattori sono alla base di ogni pandemia, perché interagiscono strettamente tra di loro. Il patogeno muta e lo abbiamo visto con le cosiddette varianti. Per quanto concerne l’ospite, è noto che non tutti reagiamo allo stesso modo durante una pandemia. Ognuno è geneticamente diverso e in tutte le epidemie ci sono coloro che reagiscono in un modo e coloro che invece reagiscono in un altro. Anche con il Covid abbiamo visto che ci sono gli asintomatici, quelli che invece sviluppano una forma lieve della malattia, quelli con la forma un po’ più grave che necessitano di andare in ospedale e chi invece ha una forma gravissima e viene ricoverato in terapia intensiva. Da subito abbiamo notato che ci sono modi diversi dell’ospite di reagire all’infezione. La diversità è data dall’età, dalla presenza di comorbidità, anche dal sesso. Ma abbiamo anche visto giovanissimi, senza alcuna comorbidità, sviluppare forme gravissime. Questo cosa vuol dire? Che qualcosa è scritto nei geni. Con questo obiettivo diversi consorzi internazionali, oltre a noi, si sono costituiti in tutto il mondo decidendo di studiare il genoma dell’ospite per capire cosa c’è alla base di questa diversa risposta all’infezione. Presupponendo il fatto che, trattandosi di un virus mai conosciuto prima d’ora, non è possibile aver sviluppato gli anticorpi.
- Quindi come si reagisce di fronte ad un virus mai incontrato prima e, soprattutto, perché ci sono i resistenti?
C’è una prima linea di difesa, che tutti noi abbiamo, e che si chiama immunità innata. Ce la portiamo dietro e, quando non si conosce un virus, le cellule partono rapidamente con reazioni fortissime che lo bloccano, producendo delle molecole, chiamate interferoni, che distruggono il virus stesso. Magari ci sono delle persone che questa prima linea di difesa non ce l’hanno perfettamente funzionante o nelle quali è deficitaria. Ed è quello che abbiamo scoperto a ottobre: il 10% dei pazienti gravi ha un difetto nei geni che producono o che attivano le molecole dell’interferone e quindi non ha la prima linea di difesa. Questi sono coloro che noi definiamo i ‘suscettibili’. Dimostrato questo, evidentemente esiste anche il rovescio della medaglia e dunque esistono anche i ‘resistenti’. La genetica funziona così. Questo lo avevamo già visto, ad esempio, nell’AIDS, per cui c’è il 5-10% della popolazione resistente naturalmente all’ingresso del virus. Così anche per il Sars-COV-2 esistono i resistenti naturali e noi vogliamo scoprire quanti sono e quali sono e per farlo c’è un unico modo: selezionare bene queste persone che sono state fortemente a contatto con soggetti positivi o ammalati, che ci hanno vissuto, dormito e che, non solo non si sono ammalate, ma non si sono neanche infettate.
- A che punto è il vostro lavoro?
In questo momento abbiamo identificato 150 possibili resistenti, così come stanno facendo i colleghi all’estero, li stiamo selezionando e poi dobbiamo studiarli nel dettaglio. Vanno confrontati per scoprire quanti sono e quali geni hanno. Ci vorranno mesi per scoprirlo, dopo le procedure obbligatorie necessarie all’approvazione del progetto. Siamo nella fase di raccolta e di analisi dei campioni di DNA.
- Qual è l’obiettivo finale?
Scoprire quali sono i geni che nel nostro DNA conferiscono resistenza al Covid-19. E’ fondamentale individuare qual è la caratteristica principale che consente a queste persone di resistere anche per la realizzazione di futuri farmaci contro questo virus. Per l’HIV si è scoperto chi sono e cosa hanno i resistenti, tant’è che è stato realizzato un farmaco per rendere simili ai resistenti coloro che non hanno questa caratteristica.
- Nei mesi scorsi si è spesso sentito parlare di soggetti immuni al Covid perché appartenenti ad uno specifico gruppo sanguigno. Quanta fondatezza vi è in questa teoria?
Sono geni anche questi, ma la mia impressione è che il gruppo sanguigno e altri geni che abbiamo già scoperto nel corso del nostro studio conferiscono una bassa resistenza. Quindi non è significativo né utile dal punto di vista clinico. Le spiego il perché. I resistenti dovrebbero essere le persone con gruppo 0. Nella popolazione il 40% appartiene a questo gruppo. Pensa che abbiamo il 40% di resistenti al Covid? I resistenti reali sono pochi, non il 40%, altrimenti non avremmo avuto tutti i decessi che abbiamo registrato.