Secondo un’indagine Istat, negli ultimi 5 anni le diagnosi di dislessia nei bambini sono passate da 94.000 a 188.000 mentre, per quanto riguarda i casi di autismo, negli ultimi 20 anni sono passati dallo 0,3 all’1,5%. Una forte crescita, dunque, di diagnosi a volte sbagliate di disabilità cognitiva e disturbi dell’apprendimento.
E’ di questo parere il Professore Michele Zappella, già docente di Neuropsichiatria infantile all’Università di Siena, con un’esperienza clinica di oltre cinquant’anni, studioso di Neuropsichiatria Infantile, Autismo, Sindrome di Rett, ADHD, ritardo mentale, disturbi psichiatrici e Sindrome di Tourette. Ha lavorato per molti anni in Inghilterra e negli Stati Uniti, ha diretto per 33 anni il reparto di Neuropsichiatria Infantile dell’Azienda Ospedaliera-Universitaria di Siena. E’ autore di numerosi libri e articoli, molti dei quali dedicati ai disturbi dello spettro autistico. E’ direttore scientifico della rivista “Autismo e disturbi dello sviluppo”. Il suo ultimo libro “Bambini con l’etichetta”, pubblicato da Feltrinelli, è un attacco ad “una nuova emarginazione, basata su diagnosi erronee di disabilità trasformate in etichette di ‘diversità’ irrecuperabile” e “coinvolge un numero crescente di bambini e ragazzi”.
Per cercare di fare un po’ di chiarezza, abbiamo contattato il Prof. Zappella il quale, con grande gentilezza, ci ha concesso questa intervista.
- Professore Zappella, lei sostiene da tempo che da qualche anno c’è un aumento delle diagnosi, spesso sbagliate, di disabilità cognitiva e disturbi dell’apprendimento. Come lo spiega?
Innanzitutto non è soltanto un fenomeno italiano ma è diffuso in molti Paesi: c’è una moltiplicazione delle diagnosi. Si tratta di un cambiamento culturale che avviene a vari livelli, si manifesta nel mondo scolastico con la caccia alla difficoltà del bambino o al bambino difficile per cui, per quello che riguarda lettura e scrittura, c’è la facile tendenza a parlare di dislessia e non invece di ritardi di lettura. Da questo punto di vista l’Italia è molto indietro, le faccio un esempio molto chiaro: se vede la letteratura scientifica di lingua francese, si indica chiaramente che su 5 bambini indietro nel leggere, soltanto 1 è dislessico mentre gli altri hanno dei ritardi di lettura. Un altro esempio è che se va in un quartiere di persone povere, il numero di bambini con ritardi di lettura aumenta molto. La conseguenza è che bambini che hanno bisogno di essere aiutati per imparare a leggere vengono etichettati e quindi, in questo modo, nell’ambiente in cui soprattutto il bambino vive socialmente che è la scuola, viene indicato come “il dislessico” oppure “l’autistico”.
Poi, nella maniera in cui è strutturata la scuola italiana, piena di rappresentanze di genitori, di studenti etc. lo vengono a sapere tutti e questo non è buono, si crea un intreccio di cose molto pericolose.
- E a proposito di etichette, il titolo del suo ultimo libro è proprio “Bambini con l’etichetta”.
Si. Lo spunto a scrivere questo libro è nato dalla mia esperienza. Sono un neuropsichiatra infantile anziano, ne ho viste tante e le posso dire che mi sono trovato protagonista negli Anni ‘70 nell’impegno per l’abolizione delle classi differenziali speciali. Allora perché succedeva questa forma di emarginazione e come? Nelle classi venivano fatti dei test collettivi di intelligenza che coinvolgevano negativamente i figli degli emigrati meridionali. Negli Anni ’50-‘60 c’era una grande migrazione da Sud a Nord, queste persone parlavano in dialetto, non comprendevano certe indicazioni e quindi venivano diagnosticati come ritardati mentali. E’ storia del nostro Paese.
Ora la situazione è cambiata ed è molto più sofisticata. Le classi differenziali di allora le abbiamo battute, in questo momento invece ci sono queste diagnosi moltiplicate che devastano emotivamente il bambino e la famiglia. Abbiamo parlato della dislessia ma la devastazione emotiva più grande si ha con l’autismo.
- Negli ultimi anni sono aumentati i casi di autismo?
La situazione è questa: l’incidenza e la prevalenza dell’autismo negli Anni ‘60-‘70 fino alla prima metà degli Anni ‘80 in tutto il mondo era 4 per 10.000. Dalla fine degli Anni ‘80 c’è stata una moltiplicazione in molti Paesi favorita dall’uso di alcuni test per cui in Svezia, ad esempio, siamo attorno ai 250 ogni 10.000, ci sono alcuni studi americani che vanno addirittura oltre (verrebbe fuori che 1 bambino su 40 è autistico). Le posso aggiungere poi che accanto a questo c’è un business economico.
- Cioè?
C’è un recente studio americano che indica che, nella prima settimana dopo la diagnosi di autismo, 4 mamme su 5 vanno in depressione e dopo un anno e mezzo molte sono ancora depresse, ovviamente non è strano: immagini che a suo figlio venga data una diagnosi del genere, non credo che sarebbe allegra ma sarebbe per lei una pugnalata nel cuore. Anche i padri vanno in tilt, spesso abbandonano la famiglia. Questo è il risultato immediato. Sul piano economico, quello che viene proposto sono delle terapie di decine di ore a settimana che costano molto, ci sono alcune Regioni che pagano in parte le spese ma in molte situazioni devono pagare le famiglie. Senza contare poi i ricoveri di screening: insomma, parliamo di cifre molto molto elevate.
- Ci sono dei sintomi che devono insospettire un genitore?
Molti sintomi ci sono anche in altre circostanze, cioè ci sono molte difficoltà di bambini piccoli che si accompagnano a sintomi che sono uguali a quelli di bambini autistici. Le faccio un esempio: un bambino molto timido non si relaziona molto con i suoi compagni oppure un bambino che non sa parlare non sarà molto considerato dai suoi compagni. Il non relazionarsi con i compagni è un sintomo comune nell’autismo. Questo è uno dei problemi più importanti per cui si rischia di far passare per autistici bambini che hanno altre difficoltà di tipo minore.
- Cosa si può fare allora secondo lei?
Utilizzare una metodologia diversa. Mi spiego meglio: se il bambino viene visitato in ospedale oppure in un ambiente di tipo medicalizzato, col camice, con una certa distanza, senza giochi intorno, è facile che sia in difficoltà. Se invece la strategia di fondo dell’operatore sanitario (psicologo, neuropsichiatra, chiunque sia) è di creare innanzitutto un’alleanza con il bambino, allora le cose cambiano. Con un bambino di 2/3 anni un’alleanza si fa in parte imitando quello che le mamme sanno fare benissimo, specialmente se non parla, ad esempio facendo delle facce che lo divertano, cioè cercando di mettersi in comunicazione positiva con lui. Un’altra cosa importante è che l’ambiente sia pieno di giocattoli adatti alla sua età e al suo sesso. In terzo luogo ci devono essere i genitori: se il bambino sta con le persone che lo amano e che lui ama, con gli oggetti che gli piacciono e se il “nuovo arrivato” usa con lui un linguaggio che cerca di andargli incontro, allora è molto facile che sia disponibile e a questo punto lo si conosce per quello che è.
Infine, un altro aspetto è creare un’alleanza con i genitori. La mamma in molti casi, specialmente se ha ricevuto una diagnosi pesante, è una persona ferita alla quale interessa soprattutto il bambino, quindi l’operatore sanitario deve saper ascoltare, saper dare fiducia e ricostruire una forza emotiva, a volte anche curarla. Anche il padre ovviamente va ascoltato.
- Si può lavorare sull’autismo?
Si può lavorare benissimo sull’autismo. Chi fa la diagnosi innanzitutto deve sapere il suo mestiere, deve sapere che il linguaggio a questo punto è molto delicato, se usa il linguaggio in una maniera pesante, rischia veramente di devastare la famiglia. Sappiamo che quasi sempre i bambini che hanno un comportamento autistico hanno anche altre caratteristiche e difficoltà, quindi anziché dire “Guardi, suo figlio è autistico e lo sarà sempre” che è una cosa, tra l’altro, falsa ma è anche una delle maniere più catastrofiche di presentare una diagnosi, gli si può dire “Guardi signora, suo figlio è un bambino con diverse difficoltà, ha un problema di attenzione, è un pochino indietro, ha qualche comportamento un po’ di tipo autistico però io sono convinto che lei ha tutte le capacità di saperlo aiutare e di andare avanti nel modo migliore, tenga presente che una parte di questi bambini recupera tutto” che è la verità.
Questo è un altro discorso. Chiaramente le ho fatto un esempio molto sintetico però, voglio dire, il problema è come viene presentata una diagnosi: come una pistolettata in testa al genitore oppure come una serie di difficoltà nel quale un genitore può avere un ruolo molto importante, soprattutto le madri.
- In conclusione, cosa si sente di consigliare ai genitori?
Che ci sono vari modi per poterne uscire. Se ad esempio a un bambino viene detto che è dislessico, i genitori devono tenere presente che è molto più probabile che abbia un ritardo di lettura che può essere aiutato con strategie ben precise, nel mio libro indico quelle più adatte anche per i genitori e per gli insegnanti. Mi permetto di aggiungere che su questo piano il Ministero dell’Istruzione francese ha distribuito a tutti gli insegnanti un libretto con l’indicazione generale che i quattro aspetti della scuola elementare sono: insegnare a leggere, a scrivere, a fare i conti e a rispettare gli altri. Se l’Italia avesse fatto una cosa simile, non avrebbe fatto male. Per quel che riguarda l’autismo, la questione è ancora più delicata. I genitori devono sapere che ci sono difficoltà dei bambini superabilissime, che hanno sintomi simili e che quindi c’è un problema di diagnosi differenziale dedicato.
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