Sono tanti i giovani medici ed infermieri del Sud che in queste settimane di emergenza sanitaria stanno lottando contro il Covid-19 nelle strutture sanitarie del Nord, in particolare della Lombardia, la regione più colpita dai contagi. Come Vincenza Pecoraro, infermiera 31enne di Teggiano che da 9 anni presta servizio all’ospedale “Niguarda” di Milano. E’ di pochi giorni fa la buona notizia che questo presidio ospedaliero ha chiuso uno dei reparti di Terapia intensiva per i pazienti Covid in seguito al calo dei nuovi ricoverati.
Vincenza ha studiato a Milano, presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, e nel capoluogo lombardo è rimasta per realizzare il suo sogno professionale.
- Quali sono state le tue sensazioni in questi ultimi due mesi?
E’ difficile stabilire uno stato d’animo costante durante queste settimane, sembrava tutto alquanto irreale e difficilmente immaginabile. All’inizio sembrava quasi che quello che stesse accadendo dapprima in Cina e poi a Lodi fosse lontano anni luce dalla vita quotidiana. Poi man mano che i giorni passavano ed il virus avanzava verso altre province lombarde espandendosi a macchia d’olio, ho cominciato ad avvertire il timore che la situazione potesse precipitare ed investirci in tutta la sua veemenza. Sicuramente ha predominato un velo di paura, di timore che il contagio non potesse essere fronteggiato adeguatamente al punto che sia noi operatori della Sanità, che i cittadini, potessimo ammalarci ed avere conseguenze fisiche gravi. I primi quindici giorni di marzo sono stati davvero duri per l’ondata di contagi registrata, di gente finita in rianimazione, di colleghi rimasti colpiti dal Covid. Poi con il passare del tempo e il lavoro incessante di tutte le figure professionali, il timore ha fatto spazio alla speranza e alla voglia di reagire, combattere e non lasciarsi sopraffare da questo nemico così oscuro ed imprevedibile.
- Qual è stato l’episodio che ti ha colpita di più?
Una delle cose che mi ha particolarmente colpita è stata la paura stampata sul volto dei pazienti del mio reparto, che a seguito dei tamponi sono risultati positivi al Covid. Nei loro occhi si leggeva il timore concreto che la situazione potesse allontanarli definitivamente dai loro cari, dalle persone che fino a quel punto erano risultate fondamentali per la loro salute. Di punto in bianco si trovavano isolati in camera, con la mascherina in volto, senza la possibilità di poter vedere i parenti, rimanendo dunque emarginati dal resto del mondo. Molti erano costretti a sottoporsi ad ossigenoterapia a causa di problemi respiratori che ne determinavano una vera e propria “fame d’aria”. Oltre al supporto assistenziale mi sentivo davvero impotente per poterli almeno alleviare dal dolore e dalla preoccupazione. Quando non si era ancora palesata la pandemia e nessuno aveva contratto il virus tra i pazienti, questi avevano nei nostri volti dei riferimenti per il periodo di degenza. Con il passaggio tra reparto ordinario a reparto Covid, ci vedevano bardati con tutti i DPI e non riuscivano a riconoscerci.
- Com’è adesso la situazione al Niguarda?
La situazione al momento è ben diversa dagli albori della pandemia. La pressione a carico dei reparti sembra essere leggermente minore rispetto alle prime settimane. L’organizzazione aziendale ha fatto in modo che si potessero allestire i reparti secondo i criteri più consoni e congrui per gestire l’emergenza garantendo un’adeguata assistenza a tutti i pazienti. Tuttavia i ricoveri sono comunque continui ed il lavoro incessante sia per le unità operative impegnate per il Covid che quelle “Covid-free”.
- Alla luce di quanto è accaduto si è fortificato il tuo desiderio di lavorare per aiutare gli altri?
Durante questo periodo la voglia di lavorare per aiutare il prossimo è sicuramente aumentata esponenzialmente. Tempo fa scelsi di intraprendere questa via poiché credevo in questa professione e nei principi di empatia e solidarietà ad essa annessi. Alla luce di quanto accaduto in queste settimane credo ancor di più nel mio lavoro ed in quello dei miei colleghi anche di altre realtà ospedaliere. Poter vedere una persona star bene e guarire da qualunque affezione credo sia la soddisfazione più grande che si possa avere. E’ molto appagante anche la gratificazione della persona assistita, felice a volte anche solo della vicinanza nei momenti più difficili come questo. A tal proposito, nonostante le mille e più preoccupazioni che mi porto dentro, ogni giorno prima di entrare in reparto incido col pennarello sul mio camice una frase dedicata ai miei pazienti, incoraggiandoli a non mollare e a non arrendersi nemmeno dinanzi alle situazioni apparentemente più ardue da superare. Sono inoltre rinfrancata dal fatto che, alla luce degli ultimi avvenimenti, la professione infermieristica sia stata rivalutata positivamente e riconosciuta universalmente come indispensabile nel processo assistenziale. Troppe volte si è screditato il nostro lavoro o si sono sottolineate le cose negative. La nostra è sempre stata una professione ricca di sfaccettature e sfumature, non semplice perché da sempre siamo in prima linea su ogni versante. Molto spesso raccogliamo molto meno di quanto meriteremmo eppure non lesiniamo mai impegno, abnegazione e dedizione verso il prossimo.
- Quale credi possa essere stato, se c’è stato, l’errore della Lombardia?
Parlare di errori adesso è fin troppo facile, la situazione non era pronosticabile quando si è palesata in Cina a così tanti km di distanza da noi. Sicuramente all’inizio il contagio ha preso un po’ tutti alla sprovvista, persino coloro i quali erano deputati a prendere le decisioni per il popolo. Di certo non essendo preparati ad una pandemia di simile portata, all’inizio c’è stata incertezza e forse un po’ di superficialità da parte di tutti. A livello sanitario i presidi erano sì presenti ma non a sufficienza per tutti gli ospedali e per tutti gli operatori, mentre a livello politico si è forse tardato nelle misure restrittive che ad esempio in Campania sembra siano state più incisive ed efficaci. Vero anche che la risposta della popolazione lombarda non è stata proprio irreprensibile. La necessità di stare a casa è stata vista come una reclusione piuttosto che come una misura contenitiva. La speranza è che adesso sia le istituzioni che la popolazione abbiano compreso la gravità della situazione e la necessità di salvaguardare la salute propria ed altrui ad ogni costo.
– Chiara Di Miele –