Il Covid-19 preoccupa tutto il Paese, ma il dato dei pazienti contagiati e dei decessi in Lombardia ormai da giorni è allarmante. A combattere contro il virus in prima linea c’è l’ospedale “Luigi Sacco” di Milano, con una squadra di professionisti tenaci e pronti a qualsiasi sacrificio pur di dare una mano a chi vive questa difficoltà.
Tra loro c’è anche un giovane medico del Vallo di Diano, Mariaeva Romano, originaria di Monte San Giacomo. Si è laureata all’Università di Pavia in Medicina e Chirurgia e qui si è anche specializzata in Reumatologia. Poi una serie di esperienze importanti al Policlinico di Pavia, al Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano e da poco tempo è Dirigente Medico presso il “Sacco”. In questi giorni anche lei sta combattendo per salvare la vita ai tanti che quotidianamente vengono ricoverati nell’importante presidio lombardo.
L’abbiamo raggiunta telefonicamente in uno dei suoi momenti di pausa, che ormai diventano sempre più rari.
- Come state affrontando l’emergenza Coronavirus al Sacco, uno degli ospedali di cui più si parla in queste settimane?
“I reparti, tra cui il mio, sono stati convertiti in reparti Covid. Facciamo i turni in piccole squadre, al mattino e al pomeriggio, insieme a tanti infermieri. Bardarsi per entrare in reparto è pesantissimo, perchè non si respira bene, non possiamo bere e per non sprecare un presidio evitiamo di andare in bagno. La situazione è grave, la gente continua a morire. La struttura regge, ma si stanno ammalando anche tanti medici. Inoltre nei reparti di Medicina si stanno facendo cose di cui finora si occupavano soltanto i rianimatori, che al momento si occupano dei pazienti più gravi, instabili o intubati. Io, che sono reumatologo, mi sento impotente adesso, perchè faccio tante cose mai fatte prima. E come me tanti altri“.
- Come vengono trattati i pazienti positivi ricoverati in ospedale?
“Ci sono delle linee guida che cambiano molto velocemente. Solitamente con antivirali e immunomodulatori. C’è, come si sa, un’evidenza sul Tocilizumab, però costa tanto e al Sacco è finito e non arriverà prima di domani (lunedì 23, ndr.). I pazienti spesso sono stabili, ma hanno la febbre, desaturano e dalle lastre viene fuori una polmonite interstiziale molto grave. Molti si aggravano in poche ore“.
- Sei un medico del Sud che lavora al Nord. Si parla spesso di differenze tra le due Sanità, cosa ne pensi?
“Io non ho mai lavorato al Sud, ma quello che posso dire è che se sono al collasso le Rianimazioni di grandi ospedali, avanzati e con molte risorse, sia umane che economiche, quello che può succedere in aree meno organizzate e con meno risorse sarebbe un’ecatombe. Io non avrei mai pensato che una cosa del genere potesse accadere in Lombardia. E ho lavorato al Policlinico di Pavia, al Niguarda e ora al Sacco, tre grandi realtà. Fino a qualche settimana fa in Rianimazione c’erano le persone anziane, ma adesso i medici di Terapia Intensiva sono costretti a scegliere chi salvare, anche sacrificando persone giovani“.
- State lottando tanto adesso, ma come immagini la fine di questo periodo epocale?
“Spesso non la immagino. La soluzione non ci sarà il 3 aprile, ovviamente. Ammesso tra qualche tempo avessimo zero contagi, non si potrà ritornare di botto alla vita normale. Quando tutto sarà finito saranno ancora necessarie misure di isolamento sociale e questo sarà pesante per tutti. Io non so se avrò mai il coraggio di tornare al Sud a casa dei miei genitori, perchè non ho fatto il tampone, non so se sono positiva e gli unici spostamenti che faccio sono da casa all’ospedale e viceversa“.
- Vivi ogni giorno una situazione davvero drammatica, che è quella lombarda. Hai un messaggio per la tua terra, il Vallo di Diano, che fortunatamente ancora non conta numeri così allarmanti?
“E’ importantissimo il ruolo di ognuno di noi. Ognuno, infatti, è responsabile non solo di se stesso, ma anche della comunità. Più si resta a casa, meno si hanno relazioni sociali, anche quelle che si reputano sicure, meno si contribuisce ad aumentare il rischio di infezione. La contagiosità è elevata e al momento non ci sono armi certe contro questo virus. Quando sono in ospedale sento di fare qualcosa, fuori no. E chiunque, nel suo, deve fare qualcosa “.
– Chiara Di Miele –