Immaginate a 24 anni di ritrovarvi all’improvviso strappati dalla vostra quotidianità perchè macchiati di una “colpa” non vostra ma che qualcuno ha deciso per voi. Immaginate nel pieno della vostra vita di dover rinunciare all’improvviso ai vostri progetti, al vostro futuro, ai vostri sogni e ad essere trattato come l’ultimo criminale o, peggio ancora, una bestia. Immaginate lo strazio e il dolore e moltiplicatelo per cento e poi per mille. Purtroppo tutto questo è successo davvero e non ci sono parole abbastanza adatte per poter descrivere tutto quello che le persone che hanno subìto queste umiliazioni hanno provato, possiamo solo ascoltare, capire e soprattutto ricordare affinché le tenebre non si riprendano la luce che abbiamo la fortuna di poter avere.
Questa è la storia di Heinz (Heinrich Emanuel Ewald) Skall nato a Vienna il 13 dicembre 1914, ebreo internato a Sala Consilina, e di Rita Cairone nata a Salerno il 30 gennaio 1918, raccontata dalla loro figlia, Anna Skall, che ci ha gentilmente concesso l’intervista che segue.
- Suo padre quando è arrivato in Italia e perché?
E’ arrivato in Italia nel 1933, ha frequentato il Liceo Scientifico a Vienna e poi quando è arrivato il momento di scegliere l’Università, i suoi genitori, avendo visto che i tempi cominciavano a rabbuiarsi, lo hanno mandato a Bologna.
Quando mio padre aveva 4 anni, i suoi genitori hanno divorziato e tutti e due si sono risposati. Nonno Otto (nato a Praga) era un famosissimo fotografo d’arte e assieme alla sua nuova moglie, Auguste Mandler detta Gusti (nata a Vienna), giornalista, viaggiavano molto e quando sono venuti in Italia l’hanno amata dal primo momento per cui quando è stato il momento di scegliere l’Università, hanno pensato insieme a nonna Hela (Helena, detta Hela, Schein nata a Leopoli, Polonia, e sposata in seconde nozze con Willi Kleinberg) che potesse essere il posto giusto. Fino al 1938 papà è stato a Bologna, poi con l’uscita delle leggi razziali ha dovuto laurearsi in tutta fretta, chiudere il corso universitario e per fortuna è riuscito a prorogare l’espulsione che gli sarebbe toccata in quanto ebreo straniero.
- E che cosa ha fatto a questo punto?
Tenga conto che studiava e intanto lavorava in una ditta ed era anche molto stimato ma è stato licenziato perché il proprietario temeva ripercussioni. Papà è rimasto sospeso perché nel ‘38 in Austria, dove abitava sua madre, c’era già Hitler e quindi non poteva tornare, suo padre e la sua seconda moglie erano scappati a Praga ma intanto nella primavera del ‘39 anche lì c’era stata l’invasione dei tedeschi e quindi non sapeva cosa fare. Comunque è riuscito a prorogare fino a giugno del 1940 quando l’Italia è entrata in guerra al fianco della Germania: da quel momento tutti gli ebrei stranieri sono stati arrestati, ovviamente anche papà che è stato portato in Questura come un delinquente e tenuto lì senza sapere il suo destino. Dopo 15 giorni hanno portato tutti alla stazione di Bologna, sono stati messi su un treno senza dire loro la destinazione (hanno pensato: “Se andiamo in Germania siamo morti”) ma per fortuna il treno è partito verso il Sud. Dopo ore di viaggio sono arrivati ad Eboli e poi li hanno portati a Campagna al campo di San Bartolomeo e papà è stato internato lì un anno.
- Come si è trovato a Campagna?
Lì è stato colpito da una malattia che gli impediva di camminare per cui ha iniziato a dipingere i paesaggi e li mandava nelle lettere che scriveva ai suoi genitori. Questi paesaggi cercavano di raccontare la sua vita lì che era molto semplice e limitata: era riuscito ad abitare in paese e quindi aveva delle persone con cui scambiare conversazioni e passava molto tempo a dipingere, però si è trovato bene. Tenga conto che si trovava in questo convento senza acqua corrente, non aveva privacy insieme a tante persone di tutte le nazionalità, cioè veramente era una situazione molto anomala però piano piano si è ambientato. Inoltre gli abitanti di Campagna, come quelli di Sala Consilina, erano molto accoglienti, non sapevano nemmeno cosa fossero gli ebrei, infatti chiedevano: “Ma voi cosa avete fatto?” Loro rispondevano: “Siamo ebrei” e loro: “Ma cosa sono questi ebrei?” Non sapevano nulla! Campagna era comunque un paese di contadini, molti vivevano nelle stalle mentre gli internati erano persone che avevano studiato, dottori, professori, universitari, erano quindi persone di un certo spessore culturale, quindi c’è stato un vero e proprio interscambio che ha portato un arricchimento ad entrambe le parti. A Campagna sono stati salvati tutti, infatti la popolazione ha ricevuto la Medaglia d’Oro al Merito Civile.
- Quando è stato trasferito a Sala Consilina e perché?
Siccome papà aveva la flebite, il clima di umidità che c’era a Campagna non gli faceva bene e per questo ha chiesto di essere trasferito. E così è andato a Sala Consilina, sempre accompagnato dal questurino che l’ha portato dal podestà il quale gli ha fatto conoscere le regole della permanenza in paese: doveva andare a firmare tutti i giorni, non doveva superare i confini, entro le 6 di sera doveva essere a casa, non poteva possedere apparecchi radio, non poteva possedere libri stranieri, quindi tutta una serie di coercizioni stabilite per legge. Gli hanno dato una stanza in una casa nella parte più alta del paese che si affaccia sul Vallo di Diano che si chiamava Casa Amodio. Lì viveva una famiglia che lo ha accolto molto gentilmente e gli ha dato una bella stanza, papà la descriveva dicendo di avere le lenzuola profumate che per lui che veniva dalla galera era un privilegio incredibile. Papà amava molto l’arte, la musica, la letteratura, era un uomo molto sensibile ed affacciarsi alla finestra per osservare quel bellissimo panorama lo consolava molto e gli dava un senso di libertà.
- E poi, proprio a Sala Consilina, l’incontro che gli ha cambiato la vita.
Si. Proprio lì ha conosciuto mamma perché era un’insegnante di tedesco al Liceo e anche lei aveva una stanza in questa casa. Una sera, mentre papà era davanti al camino, mamma è rientrata dopo le vacanze di Natale (lei era di Salerno) e si sono conosciuti. Immediatamente è scattata un’affettuosa amicizia tra di loro, lei è rimasta colpita da questo ragazzo bellissimo e dal modo molto affascinante nel parlare, papà conosceva perfettamente l’italiano, hanno parlato tutta la notte e da lì è nata questa amicizia sempre più forte che si è poi trasformata in amore. Papà la fotografava spesso: un giorno era nevicato e siccome mamma era di Salerno non aveva mai visto la neve, ci si rotolava come una bambina, le sembrava una cosa stranissima e le ha fatto un album pieno di foto. La cosa commovente è che si sono uniti ed amati due mondi così diversi: mia madre del Sud Italia, figlia di artigiani, una famiglia numerosa, una donna molto intelligente, piena d’amore per gli altri e papà che veniva da una cultura europea, con una famiglia che aveva contatti con grandi artisti, musicisti, scrittori. Ovviamente si sono fidanzati in segreto perché era vietato stare con gli ebrei, infatti si vedevano di nascosto vicino al cimitero, sotto gli ulivi, arrivavano anche da due strade diverse.
- Nel frattempo riusciva ad essere in contatto con i suoi genitori?
Con i genitori poteva solo scriversi lettere*, naturalmente erano censurate sia da una parte che dall’altra. Ne possediamo molte in cui i nonni gli raccontavano le loro vite a Praga e a Vienna in attesa della fine perché erano coscienti di quello che di lì a poco sarebbe successo per cui scrivevano a questo loro unico figlio cercando in qualche modo di non farlo preoccupare e cercando di vedere con una certa ironia la loro vita.
Il secondo marito della madre, Willi, è morto d’infarto nel dicembre del ’41 poco prima della sua deportazione mentre lei è stata deportata da sola. Papà ha ricevuto una sua ultima cartolina disperata e poi non ha saputo più niente, ha fatto richiesta anche dopo la guerra di sapere qualcosa ma niente, non sappiamo dov’è morta nonna Hela. Nonno Otto, invece, era a Praga e viveva con la seconda moglie in un’unica stanza cercando di lavorare sotto falso nome. Si ritrovavano con alcuni amici, ascoltavano un po’ di musica col grammofono, cercavano insomma di mantenere una vita che fosse vita ma alla fine i praghesi venivano deportati quasi tutti a Terezín, da lì andavano ad Auschwitz e loro lo sapevano. Per questo, nel gennaio del ‘42 la moglie prima e lui il giorno dopo, si sono suicidati per evitare la deportazione**.
Quando a papà è arrivata questa notizia e poi gli è tornata indietro l’ultima lettera che aveva spedito alla madre intuendo il tragico destino a cui era andata incontro, è entrato in uno stato di disperazione assoluta. Per fortuna che mamma era con lui perchè l’ha aiutato per quello che poteva, penso che la condivisione di questo terribile dolore sia stato ciò che maggiormente li ha legati nella vita. Purtroppo però qualcuno mandò una lettera anonima al podestà segnalando che mamma aveva un fidanzamento con un ebreo. Per questo sarebbe dovuta essere sanzionata e cacciata da tutte le scuole del Regno ma, per fortuna, tramite delle conoscenze è riuscita ad avere un altro posto di lavoro ad Amalfi, per cui ha dovuto lasciare Sala Consilina e ad ottobre del 1942 ha preso servizio lì.
- Cos’ha fatto a questo punto suo padre?
Papà è rimasto solo in preda a questo suo grande dolore anche se era diventato amico con diverse persone del posto che lo aiutavano, come ad esempio il dottor Bracco, famoso medico di Sala Consilina, oppure aiutava il fotografo, poi c’erano altri internati con cui aveva fatto amicizia, insomma, aveva una sua vita. Lui godeva molto della natura, raccontava che scendeva al mercato per comprare i prodotti del Vallo, parlava di una signora che incontrava lungo la strada su un asinello che vendeva i fichi e lui ogni mattina li acquistava, insomma, ha dei ricordi molto dolci di Sala Consilina ma questo dolore atroce non si placava anche perché la sua Rita non c’era. Allora ha chiesto un trasferimento a Bologna perchè lì aveva tanti amici per cui nel 1943 è stato trasferito sempre in libero internamento. Questa è stata la fine perché se fosse rimasto a Sala Consilina, nell’autunno del ‘43 sarebbe stato liberato in quanto sono arrivati gli americani, invece si è trovato a Bologna e sono arrivati i tedeschi che hanno occupato il Nord Italia. Qui, con l’aiuto di questi amici che gli hanno voluto sempre bene, si è prima nascosto in un appartamento vuoto, poi un altro amico gli ha procurato un documento ritrovato tra le macerie di un bombardamento (perché non aveva documenti validi ma solo il passaporto con la J di Jude, “Giudeo”) , era il documento di una donna che si chiamava Fedora e lui piano piano ha trasformato il nome in Fedorio, al maschile, e con quel documento è stato accompagnato da un’amica carissima che si chiamava Gina D’Avià e si è rifugiato prima in Piemonte e poi in Valle D’Aosta. Qui un’altra amica gli ha messo a disposizione una casa ed è rimasto un anno a Cogne, dunque fino al ‘44, dove lavorava in una miniera come contabile.
- Intanto è riuscito a rimanere in contatto con Rita?
Eh no, l’ultima volta che si erano visti è stato quando papà è andato alla stazione di Salerno per andare a Bologna. Si erano scritti con la mamma con il “trucco” di intestare le lettere ad una sua zia e si erano messi d’accordo per incontrarsi alla stazione, qui però non si potevano parlare perché dovevano far finta di non conoscersi, quindi hanno passato un po’ di tempo a guardarsi e poi lui è dovuto andare via. Quando è salito sul treno ha detto ai due questurini che lo accompagnavano che sarebbe voluto andare a conoscere i genitori della sua fidanzata a Salerno e loro gli hanno detto: “Ma dottore, perché non ce l’ha detto che venivamo anche noi, andavamo a mangiare tutti!” Questo per dire come la gente del popolo fosse molto diversa dai governanti. Una seconda volta si sono visti sempre nel ’43: mamma aveva un fratello a Vicenza e quindi passando per andare da lui si sono visti per poco tempo a Bologna, dopodiché non hanno più avuto notizie l’uno dell’altra.
- Ritorniamo a suo padre, siamo a Cogne nel 1944. Cosa succede?
Papà è dovuto fuggire anche da Cogne perché sono arrivati i tedeschi nella valle e nell’inverno del ‘44 ha attraversato le Alpi a piedi con un gruppo di varie persone tra cui antifascisti e militari che scappavano e hanno attraversato la frontiera. Solo che siccome era inverno e con l’attrezzatura che c’era, papà stava morendo: lui ricorda di un medico che era lì con loro, l’ha aiutato ad attraversare e gli ha salvato la vita. Quindi papà si è salvato grazie a persone che non si sono girate dall’altra parte e nonostante fosse pericolosissimo, lo hanno aiutato. Una volta arrivato in Francia, ci è rimasto per un anno, intanto è stato arrestato due volte poiché non aveva documenti però alla fine nella primavera del ‘45 con la liberazione si è recato dalla polizia, ha dichiarato le sue generalità e finalmente hanno appurato chi fosse realmente. Allora ha mandato un telegramma a mamma scrivendo: “Sono libero in Francia, abbiamo vinto”. Lei lo aveva aspettato per due anni e i miei nonni, persone umili e artigiani, non le hanno mai chiesto del perché si fosse fidanzata con un ebreo, mai, le avevano solo detto: “Rita, guarda che non torna, con quello che è successo come fa a tornare”. E mamma rispondeva loro: “Finché non so che è morto lo aspetto” e l’ha aspetto due anni. Alla fine papà è tornato, è rientrato in Italia, lei era di nuovo a Vicenza da suo fratello e si sono rivisti lì: mamma da lontano non l’ha riconosciuto perché era magro, patito, distrutto ma finalmente si sono ritrovati e non si sono più lasciati.
- Quando si sono sposati?
Si sono sposati a Salerno nel febbraio del ‘46, papà lavorava lì per gli americani, faceva l’interprete perché conosceva 4 lingue: il tedesco, l’italiano, il francese e l’inglese. In seguito ha trovato un lavoro a Verona, si sono trasferiti e ci hanno abitato per tutta la vita, infatti sia io che mia sorella siamo nate lì.
- Qual è il messaggio che si sente di mandare?
E’ quello che i miei genitori mi hanno trasmesso, cioè ognuno di noi può fare la differenza: nulla è peggio dell’indifferenza di fronte a quello che per ciascuno di noi è un’ingiustizia. L’indifferenza è ciò che ci porta a fare del male alle persone, invece papà si è salvato perché qualcuno non è stato indifferente e lui per tutta la vita ci ha insegnato ad essere aperti verso gli altri, ad accogliere anche e soprattutto le diversità come ricchezza e ci ha insegnato la gratitudine verso le persone che lo hanno aiutato. Non bisogna avere alcuna forma di pregiudizio, difatti i nostri genitori hanno sempre cercato di aiutare gli altri senza distinzioni e poi, essendo custodi di questo passato che hanno attraversato, soprattutto papà in maniera così tragica, ci hanno sempre detto di amare molto la vita.
Secondo me dobbiamo pensare a giudicare le persone singolarmente, non come razza, etnia, etc. Io sono fiduciosa nei giovani, vado spesso nelle scuole (fino a prima del Covid) e ho visto tanti ragazzi che alla fine sono venuti da me e si sono esposti al riguardo, hanno voglia di capire affinché queste cose non si ripetano perché è molto facile, e lo vediamo già adesso. Bisogna stare con le antenne molto alte perché quando vedo fili spinati con dietro dei bambini che piangono, mi vengono in mente delle cose terribili. Non è diverso, è la stessa cosa, è vedere gli altri come dei diversi ma noi siamo tutti uguali, la razza non esiste, veniamo tutti dallo stesso ceppo, dobbiamo accogliere ed essere pronti all’interscambio e alla conoscenza delle diversità dell’altro. Tutto questo dipende molto dalla famiglia, quindi dai genitori e anche dalla scuola perché è a scuola che queste cose devono essere spiegate affinché non si ripetano più.
*Lettere di Hela:
“Accendendo le candele e pronunciando le mie benedizioni ti ho pensato tanto intensamente mio tesoro. Pregando per te come ogni venerdì che ci possa essere almeno donata la gioia di rivederci, che la Provvidenza vegli su di te figlio mio amato. Non addolorarti per noi quattro (i genitori e i loro rispettivi nuovi coniugi che erano in ottimi rapporti, ndr) anche se dovessimo partire, se succederà lo faremo con l’aiuto di Dio e il profondo unico pensiero di poterci, un giorno, riunire a te”.
“E’ possibile che il nostro caro Willi, morendo, abbia evitato per sé quel tanto che ancora ci attende e che non possiamo mai dimenticare in questi amari tempi e difficili. Da un lato grazie a te i miei pensieri si librano in alto, grazie alle tue parole per me tanto preziose per poi cadere precipitosamente dal cielo in terra ora tanto dura date le attuali circostanze”.
**L’ultima lettera di Otto:
“Caro figlio, credimi se ti dico che Willi probabilmente è stato fortunato perché solo Dio può sapere che destino gli è stato risparmiato tra i più atroci. Te lo dico, anche se può sembrarti banale o peggio volgare, oggi gli incubi tremendi sono diventati realtà. C’è senz’altro tanta gente che lo invidia per la sua fine rapida e senza sofferenze. Di noi nulla di nuovo da riferire, stiamo in una cameretta con una stufa che ci offre un po’ di calore per combattere il grande freddo che c’è fuori, arrivato a – 25°. Spesso andiamo dalla vecchia zia, altre volte da amici, considerato tutto assieme, nulla vale più la pena, stai in salute Heinz”.