Il 25 aprile si ricorda la Liberazione d’Italia dal governo fascista e dall’occupazione nazista del Paese. Il 25 aprile del 1945, infatti, è stata scritta una pagina della storia che ha cambiato la sorte dell’Italia, divenuta simbolo della Resistenza, cioè della lotta condotta dai partigiani.
“Ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire”, furono le parole emblematiche con cui Sandro Pertini proclamava lo sciopero generale 78 anni fa. Allora i partigiani, seguendo le direttive del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI) diedero inizio all’insurrezione; tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia, facenti parte del Corpo Volontari della Libertà, ebbero l’ordine di attaccare i presidi fascisti e i tedeschi, imponendo la resa, giorni prima dell’arrivo delle truppe alleate.
Tra le regioni liberate nel Nord Italia c’era anche la Liguria ed in particolare Genova, che venne liberata dai tedeschi grazie al prezioso aiuto del partigiano Carmine Romanzi, di origini campane. La sua vita può definirsi per molti aspetti esemplare: infatti, non solo ha contribuito alla resa di Genova ma è stato un uomo che con il suo sapere ha contribuito anche sul piano scientifico, culturale, sociale ed istituzionale. Possiamo ricordare non soltanto il suo aspetto da partigiano, ma anche di rettore dell’Università di Genova, di scienziato e di europeista.
Carmine Alfredo Romanzi nacque a Salvitelle l’8 settembre del 1913. Decimo dei tredici figli di Francesco Romanzi, nobile medico, e di Angiola Bonavoglia, anche lei nobile ed entrambi facoltosi proprietari terrieri. A Salvitelle trascorse la sua prima gioventù, dopodiché nel 1931, terminato il liceo, si iscrisse alla facoltà di Medicina alla Federico II di Napoli dove si laureò nel 1937. Nel frattempo compì anche il servizio militare. Dopo la laurea si trasferì a Genova dove sostenne l’esame di Stato e venne invitato dal professor Luigi Piras a far parte dell’Istituto di Igiene diventando assistente ordinario della materia.
Proprio a Genova entrò in contatto con Giuseppe Rensi e iniziò a frequentare gli ambienti antifascisti.
Il punto di svolta arrivò negli anni ’40. Carmine proprio in quegli anni fu chiamato al servizio militare e inviato come Tenente medico prima in Francia, poi in Albania e Jugoslavia, dove restò fino al 1943. Quando rientrò a Genova riprese i contatti con gli ambienti antifascisti, infatti venne sorpreso all’armistizio dell’8 settembre: entrò così a far parte della resistenza nelle formazioni di Giustizia e Libertà svolgendo compiti di collegamento tra i partigiani combattenti in Liguria e poi in Piemonte. In quegli anni, tra l’altro, assunse il nome di battaglia di Stefano, poiché aiutando un suo amico a sfuggire da un arresto divenne ricercato e costretto alla clandestinità, motivo per il quale trascorse un periodo della sua vita anche in Piemonte.
Nel 1945, in primavera, venne richiamato a Genova da Mario Cassiani Ingoni, rappresentante del Partito d’Azione in seno al CNL in Liguria. Nello stesso anno entrò in contatto tramite il collega della Facoltà di Medicina, Antonio Giampalmo, con il Generale tedesco Gunther Meinhold, Comandante della piazza di Genova. Dietro mandato del CNL e del Comando Regionale Militare Unificato, Romanzi si incontrò diverse volte con il Generale tedesco per negoziare le condizioni della resa di quest’ultimo. Nella notte del 24 aprile con un’ambulanza raggiunse il Comando tedesco a Savignone per un colloquio con Meinhold: il 25 mattina, di rientro a Genova, nella sede di Villa Migone, vennero definite e firmate le clausole della capitolazione delle truppe tedesche.
Le uniche testimonianze degli anni della Resistenza di Romanzi sono raccontate in un tema scolastico del 1992 del nipote Alfredo Palmieri, il quale ha riportato una lettera scrittagli dal nonno, e in un’intervista di Maria Elisabetta Tonizzi e Giovanni Battista Varnier, raccolta tra ottobre 1993 e gennaio 1994. In questa importante intervista, a cui faremo riferimento, Romanzi sottolinea che ad influenzarlo nella scelta sicuramente non furono le frequentazioni amichevoli o le scelte politiche perchè già in famiglia si respirava un clima non simpatizzante per i fascisti.
Del padre Romanzi racconta che “non è mai stato fascista nonostante la sua posizione sociale fosse di grande prestigio, soprattutto nel paese di Salvitelle. Intendiamoci, non era neppure un antifascista militante. Pur non avendo mai fatto a noi figli discorsi esplicitamente contro il fascismo, direi anzi che in casa si parlava pochissimo di politica, ma anche questa, ripensandoci, era una scelta non neutrale, non mancava però di assumere atteggiamenti di disgusto, di interiore avversione per il regime”. Sottolinea, infatti, a tal proposito: “E’ impresso nitidissimo nella mia memoria il ricordo di mio padre che regolarmente accartocciava e gettava via con stizza il giornale con le foto e gli articoli che celebravano le gesta del Duce. Voglio anche ricordare alcuni altri elementi per completare il quadro dell’ambiente familiare in cui ho vissuto fino a venticinque anni. La mia famiglia aveva una vasta rete di amicizie, tra queste c’erano persone che avevano occupato una posizione di primo piano nel mondo politico e culturale dell’Italia prefascista. La nostra casa era frequentata da Giovanni Amendola, io ero poco più che bambino ma lo ricordo bene, da Enrico De Nicola, da Benedetto Croce. Voglio dire che il salotto di casa mia non è stato palestra di dibattito politico ma, dati gli ospiti che lo frequentavano, è chiaro che per il fascismo e i fascisti la porta era chiusa”. Inoltre, Romanzi ricorda che durante il periodo della Resistenza i familiari non gli hanno mai scritto proprio per evitare di comprometterlo.
Romanzi, inoltre, racconta che nel 1938 iniziò a collaborare come assistente presso l’Istituto di Igiene a Genova e proprio lì un suo collega gli presentò Rensi, che frequentò regolarmente fino al 1940, anno in cui partì come Tenente medico per il fronte francese. Così si susseguirono gli anni lontano dall’Italia e dagli ambienti antifascisti. Proprio durante gli anni in Jugoslavia, Romanzi si adoperò a favore della popolazione nonostante la presenza dei soldati tedeschi. Un modo era quello di informare la gente delle date del passaggio dei tedeschi in modo da poter scappare e portare in salvo i loro averi; ebbe modo di salvare molti ebrei, adoperandosi, ad esempio, affinché venissero rilasciati loro i lasciapassare oppure facendosi consegnare gli elenchi di quelli che dovevano essere prelevati dai tedeschi per avvertirli di notte e farli fuggire.
Nel luglio del 1943 Romanzi lasciò la Jugoslavia, ritornò a Genova e riprese i contatti con gli antifascisti. Alla data dell’armistizio dell’8 settembre, però, era ancora un Ufficiale dell’Esercito Italiano: “La ragione principale è questa: io, cittadino italiano, avevo fino ad allora ubbidito alle direttive del Capo della nazione, il Re, che mi ordinava di combattere a fianco dei tedeschi. L’8 settembre ha detto ‘basta combattere contro i francesi e gli inglesi. Combattete contro chiunque vi attacchi’, ben sapendo che attaccavano i tedeschi. Non mi sembrava vero, questo devo riconoscerlo, che mi ordinassero una cosa del genere. E non ci devono accusare di avere, noi partigiani, creato la guerra civile, perché l’8 settembre non esisteva la Repubblica di Salò. La nostra azione iniziale non è stata contro altri italiani, ma contro i tedeschi e quelli che si alleavano con loro, i fascisti”.
Durante gli anni di guerra ricordiamo che scelse Stefano come nome di battaglia. Quelli dopo l’armistizio furono infatti periodi bui per Romanzi, che fuggito da un arresto era diventato un ricercato. Nel 1944, durante un periodo trascorso in Piemonte, continuò ad adoperarsi al fianco dei partigiani ed ancora una volta aiutò alcuni ebrei a fuggire. Solo nella primavera del 1945 rientrò a Genova: di lì a poco sarebbero iniziati i suoi incontri con il Generale tedesco Meinhold, un generale prussiano esemplare, fedele a chi guidava la Germania in quegli anni, come suo dovere. Ma non era un nazista, vedeva lucidamente che la guerra stava per arrivare al termine con un esito negativo per la sua patria. Sapeva che i partigiani sarebbero partiti all’attacco ed era cosciente del fatto che sarebbero potuti verificarsi dei veri e propri massacri. Il suo intento, allora, era soltanto evitare inutili stragi e tutelare la vita dei suoi soldati.
Dunque, quattro sono gli incontri avvenuti: il primo l’11 aprile, nello studio di Giampalmo all’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università; Elisabetta Muller (moglie di Giampalmo, collega di Romanzi) faceva da interprete. “Meinhold disse di essere disposto a far ritirare progressivamente le sue truppe che sarebbero state sostituite, senza combattere, dalle forze partigiane”. Continuarono quindi le trattative, altri due incontri avvennero il 17 ed il 23 aprile, nella sede della Festungskommandatur. In queste occasioni, oltre alla moglie di Giampalmo era presente anche il Capitano Asmus, Capo di Stato Maggiore. “Meinhold era molto guardingo, temeva interventi delle SS ed aveva predisposto un servizio di guardia formato da elementi di sua stretta fiducia – racconta Romanzi -. Nel colloquio del 17 aprile chiesi al Generale di dar ordine di rimuovere le mine che erano state poste in alcuni punti della città e di fornire dati sulle forze tedesche: egli mi fornì una pianta del Porto in cui era indicata la dislocazione delle mine e mi comunicò l’entità delle forze tedesche lì presenti. Nell’incontro del 23 aprile mi fece sapere che aveva provveduto a sminare i punti che gli erano stati indicati. Mi ribadì inoltre la proposta fatta nel primo incontro, da effettuarsi nei successivi tre giorni. Si impegnava, se la ritirata fosse avvenuta senza disturbo, a limitare al massimo le distruzioni di strade ed edifici cittadini. Sapevo che simili clausole non sarebbero state accettate dal Comando Militare, che voleva la resa senza condizioni, ma mi impegnai comunque a riferire ed a comunicargli la risposta il giorno successivo. Il colloquio era fissato nella sede dell’Istituto di Anatomia Patologica. La situazione, però, quella stessa sera, ebbe un’evoluzione tale che ci impedì di incontrarci nella sede convenuta. Il CLN e il Comando Militare Regionale avevano dato ordine di insurrezione e la mattina seguente in città le forze partigiane erano impegnate in aspri combattimenti”.
Meinhold, che si trovava a Savignone, ebbe l’acqua alla gola e nessuna via di fuga verso il Nord. Cercò quindi un accordo per salvare i suoi soldati, in caso contrario avrebbe bombardato la città. Il Generale insistette per incontrare Romanzi ed al contempo il CLN ed il Comando Militare scrissero una lettera per Meinhold in cui chiedevano la resa senza condizioni. “Mi sono allora offerto di recapitargliela. Ho però detto a Cassiani Ingoni che ritenevo che i contenuti della missiva del CNL andassero sfumati: rendeva impossibile ogni negoziato. Mi vengono quindi consegnate la lettera rivista ed una lettera del Cardinale Boetto in cui veniva chiesto di risparmiare la città. Salgo quindi su un’ambulanza e, alle 10 di sera del 24 aprile, parto alla volta di Savignone. Prima di partire concordo con Cassiani Ingoni che, se ce ne fosse stato bisogno, avrei condotto il Generale a Villa Migoni, residenza privata del Cardinale Boetto”.
Arrivato a Savignone alle prime ore del mattino, Romanzi intrattenne con Meinhold un discorso lungo almeno due ore, durante le quali il Generale si rese conto che non vi erano più vie di scampo, motivo per il quale accettò di recarsi a Genova con “Stefano”: “Prima di metterci in viaggio mi consegnò la sua pistola come garanzia di lealtà delle sue intenzioni. Alle dieci siamo ripartiti insieme, sempre sull’ambulanza; il Capitano Asmus ci seguiva su un’altra macchina”.
Dunque alle tre di quel pomeriggio i due arrivarono a Villa Migone dove giunsero anche dei membri del CLN Remo Scappini e Errico Martino, il Comandante della piazza di Genova, Maggiore Mauro Aloni, il Console tedesco Etzdorf e il dottor Savoretti. Su richiesta di Meihnold, Romanzi presenziò alla stesura dell’atto di resa senza firmare il protocollo poiché non autorizzato a farlo: “Ho deliberatamente rinunciato ad un’occasione per passare alla storia. Non mi sono mai aspettato nessuna ricompensa per quello che ho fatto. Potevo rifiutarmi di trattare con Meinhold; ho scelto di farlo e voglio comunque aggiungere che si è trattato dell’esperienza più importante della mia vita, semplicemente perché l’ho considerato mio dovere”.
Dopo la resa Meinhold venne processato a Norimberga, il CLN di Genova inviò ai giudici una memoria in cui si rendeva nota la lealtà del suo comportamento: venne così assolto. Romanzi lo ha rivisto soltanto un paio di volte per incontri cordiali. “Quando mi ha chiesto di appoggiare la sua nomina a console tedesco a Genova, mi sono rifiutato”.
“Questi fatti – ricorda in un suo testo Bruno Orsini – da soli, ci dicono che Romanzi, con straordinario coraggio, lealtà verso tutti, fedeltà al Movimento partigiano di cui faceva parte e amore per l’Italia, ha ricoperto un ruolo centrale per ottenere che Genova fosse liberata ben prima dell’arrivo degli alleati, senza ulteriori sacrifici umani e senza la temuta distruzione dei suoi principali impianti produttivi, industriali e portuali. Basterebbe tutto ciò per consegnare l’allora trentaduenne Romanzi alla storia di Genova e della Resistenza”.
Carmine Alfredo Romanzi si è spento nel febbraio del 1994, all’età di 81 anni. La sua memoria è stata resa possibile anche grazie all’impegno di sua moglie, compagna di studi e di vita, Anna Molina Romanzi, che ha istituito un premio, consistente in una borsa di studio e in una medaglia d’oro, che viene assegnato ad atleti-studenti iscritti in Atenei di tutto il Paese che abbiano conseguito risultati sportivi di eccellenza.
La testimonianza raccolta è stata resa possibile grazie al prezioso contributo della figlia di Romanzi, Paola, che vive a Padula, la quale ha condiviso con la redazione di Ondanews testi, testimonianze, fotografie e una folta documentazione sulla vita e le imprese del suo caro padre affinché potessimo, per questa occasione, portare ancora una volta in vita le gesta del grande partigiano di Salvitelle.